Blue Whale – l’autunno dell’informazione


Quanto segue non è una sbufalata, come quello che ho visto non era giornalismo.

Le Iene ritornano sul luogo del delitto, e lo fanno con un candore disarmante.

Purtroppo ho dovuto attendere di vedere il servizio in streaming, visto che la sera da tempo ho scelto di non guardare più la televisione italiana. Matteo Viviani ha deciso con la redazione delle Iene di ripercorrere lo story telling del Blue Whale game, per dimostrare ai propri telespettatori che loro non hanno fatto altro che raccontare la verità e lanciare un giusto allarme sociale.

Maggio 2017

Si parte dal servizio del 14 maggio. Viviani prima di tutto va indietro nel tempo, fino a marzo, quando i giornali italiani per primi avevano scritto del Blue Whale (curioso che se ne infischino di mostrare chi già a marzo spiegavamo perché e percome non fosse una notizia di cui parlare, noi come sempre non contiamo niente, non abbiamo mica il tesserino!). No, Viviani nel suo viaggio nel passato cita solo e unicamente fonti che diano ragione a lui, o testate italiane che non hanno comunque capito molto della storia.

Marzo 2017

Alcuni giornali ne parlano, tra marzo e maggio sui social la notizia rimbomba, a circa 50 giorni dalla prima segnalazione sui giornali arrivano le prime segnalazioni di suicidi causati dal Blue Whale game, anche un bimbo si accorgerebbe che tutto questo è strano.

Prima di marzo in Italia nessuno ne parlava, il numero dei ragazzi che si suicidano era in linea (purtroppo) con quello degli altri anni, non esisteva un allarme Blue Whale. Delle testate ricevono delle segnalazioni al riguardo e decidono di parlarne, passati 50 giorni le stesse testate ricevono segnalazioni che questo o quest’altro ragazzo si sarebbe ucciso per colpa del Blue Whale, e la frittata è fatta. Il gioco diventa automaticamente reale, con o senza prove che lo sia. Chi a marzo sostiene sia colpa del Blue Whale non sono investigatori o questori, ma un parroco e alcuni soggetti che dicono di averne sentito parlare; prove vere nessuna, prove che il Blue Whale game esistesse in Italia sul web prima di marzo nessuna.

Tanto fumo ma di arrosto non vedo i resti…

Poi Viviani cita Sergey Pestov, fondatore di un’associazione che si occupa di salvare i bambini dai criminali del web, associazione fondata a gennaio 2016, associazione che, anche lei, non ha alcuna prova dell’esistenza del Blue Whale, solo supposizioni, come tutte le altre mostrate nei vari servizi che da allora hanno circolato in rete e fuori. Sempre nell’ottica dello story telling si fa riferimento anche all’intervento della polizia, che sosterrebbe che parlare del fenomeno sia comunque buona cosa, per aiutare a prevenirlo.

Ma è davvero così?

Nel servizio si fa il giochino delle tre carte. Si sostiene che alcune testate abbiano definito fasulle le interviste alle donne, cosa che forse qualcuno avrà anche detto, il problema era che nel servizio originale delle Iene venivano mostrate ragazze italiane piangere, ragazze estrapolate da un video che nulla centrava col Blue Whale, ragazze che avevano mostrato il loro disappunto per esser state inserite nel video delle Iene a loro insaputa, ma anche questo nel servizio non ci viene raccontato: loro sono solo perplessi.

Viviani è perplesso perché su Wikipedia si dice che il servizio delle Iene di maggio era falso perché false erano le interviste alle mamme. Wikipedia sostiene che quello di maggio fosse un servizio falso basandosi non solo sulle interviste, ma anche sul fatto che alcuni dei suicidi mostrati erano fasulli ed altri ritraggono scene in alcuna maniera collegate al Blue Whale, si tratta di immagini che servivano solo a descrivere la storia, aumentando l’impatto emotivo. Matteo Viviani ammette la leggerezza nel non avere verificato quei filmati con attenzione, evitando però attentamente di mostrare come alcuni fossero proprio fasulli, come cercavo di spiegare qui.

Prove creepypasta

Nessuno ha accusato le Iene di essersi inventate la storia del Blue Whale, ma di averla cavalcata. I tanti siti che hanno dato contro al servizio di maggio l’hanno fatto sulla base della mancanza di prove reali dell’esistenza del fenomeno. Supposizioni tantissime, ma prove che mostrino come prima di marzo 2017 esistessero “curatori” del gioco che hanno spinto il quindicenne di Livorno a buttarsi da un palazzo non ce n’erano, e non ce ne sono nemmeno oggi.

Sempre nel servizio si ritira fuori l’arresto di Ilia Sidorov, avvenuto in Russia a giugno 2017. Sarebbe stato un curatore del gioco, le prove che lo inchiodano sarebbero dei messaggi con cui avrebbe incitato una tredicenne al suicidio. Non metto in dubbio l’arresto e le accuse, ma voi avete idea di quanti soggetti come questo ci siano in giro per la rete? Quanti disturbati mentali sia possibile trovare su bacheche e forum vari, quanti sui social? Avete mai davvero navigato in rete? Chi istiga alla mutilazione, all’anoressia, al diventare respiriani e anche al suicidio esiste da sempre, probabilmente anche da prima che esistesse la rete.

Non ci sono prove dell’esistenza di un gioco di moda, ma solo prove che parlarne non fa che ampliarne la portata.

Come se il tutto fosse un creepypasta realistico, cioè un racconto che prevede l’utilizzo di fatti veri o credibili, riproducibili nella realtà, elementi utili per realizzare una storia inquietante. Storia che se esce dal contesto in cui è nata e diventa virale può trasformarsi in realtà grazie all’esposizione mediatica data nella maniera sbagliata.

Disagio giovanile in Russia

Curioso che in tutto il servizio delle Iene non si faccia alcun cenno al grave problema russo: un tasso di suicidi tra adolescenti altissimo, tasso che è stabile da anni, da ben prima che si parlasse di Blue Whale. No, si dà credito ai servizi governativi di un paese che non fa molto per aiutare i ragazzi con problemi di depressione e addossa le colpe delle catene di suicidi al Blue Whale. Comodo, no? Che buona parte delle notizie che arrivano da alcune agenzie russe siano pilotate è un dato di fatto, noto alle agenzie europee… Ma facciamo pure finta di nulla.

Poi si passa a intervistare un’associazione francese che si occupa di proteggere i minori. Associazione che, di nuovo, non dà alcuna prova del fenomeno, ma spiega solo che sia giusto parlarne, eppure non mi sembra affatto che quello che hanno in mente nel dire così sia esemplificato dal servizio di maggio delle Iene, chissà se gliel’hanno fatto vedere. Paolo Attivissimo si esprime così sul suo blog:

Ma è falso che i critici abbiano detto che non se ne deve parlare: hanno detto invece che è importantissimo come se ne parla. Non si parla di suicidio giovanile fra un frizzo e un lazzo e una pubblicità in un programma di varietà come Le Iene. Non si mostrano video di suicidi (oltretutto falsi). Non si mette la musica struggente. Non si spaccia un dramma di famiglia per un caso italiano di Blue Whale intervistando e imbeccando un bambino. Se ne parla al telegiornale e nei programmi di approfondimento giornalistico serio; se ne parla nelle scuole con i docenti e con gli esperti della polizia; si rispettano le linee guida sviluppate dall’OMS per non peggiorare il problema. Si mette in guarda in generale contro ogni adescatore, invece di fissarsi su una singola sigla pittoresca.

Effetto Werther

A spike of emulation suicides after a widely publicized suicide is known as the Werther effect, following Goethe’s novel The Sorrows of Young Werther.

The publicized suicide serves as a trigger, in the absence of protective factors, for the next suicide by a susceptible or suggestible person. This is referred to as suicide contagion. They occasionally spread through a school system, through a community, or in terms of a celebrity suicide wave, nationally. This is called a suicide cluster. Suicide clusters are caused by the social learning of suicide-related behaviors, or “copycat suicides”. Point clusters are clusters of suicides in both time and space, and have been linked to direct social learning from nearby individuals. Mass clusters are clusters of suicides in time but not space, and have been linked to the broadcasting of information concerning celebrity suicides via the mass media.

To prevent this type of suicide, it is customary in some countries for the media to discourage suicide reports except in special cases.

No, non ve lo traduco, ne avevo già parlato e ritengo l’articolo che avevo dedicato al fenomeno basti e avanzi. In quell’articolo cercavo di spiegare alcune cose, facendo a mia volta un passo indietro e riassumendo i dati base di tutta la storia:

Il 9 marzo 2017 eravamo usciti su BUTAC con un articolo dove trattavamo il tema Blue Whale, spiegavamo a grandi linee cosa fosse questo “gioco” e perché trovassimo idiota da parte dei giornalisti averne parlato nella maniera che avevano fatto. Da nessuna parte definivamo il gioco BUFALA, sempre e solo SENSAZIONALISMO, ma il numero di pigri che non leggono gli articoli e traggono conclusioni è altissimo. Purtroppo nel mio piccolo pezzo facevo ben presente che il problema non fosse quanto ci fosse di verificato nel gioco, ma come la notizia venisse passata al grande pubblico, sfruttando sensazionalismi che potevano portare solo ad un effetto emulazione, come la letteratura medica già insegna da tempo.

Benissimo, a maggio 2017, due mesi dopo il mio articolo, qualcun altro decide di occuparsi del gioco e nel farlo mostra tutto quello che le linee guida anti-emulazione spiegano di evitare: gente che piange, gente che si lancia dai palazzi. Scene che possono colpire i giovani, specie quelli che sono già nella fase depressiva. Nella settimana seguente sull’onda di quel servizio i giornali hanno titolato più e più volte raccontando storie collegate al gioco. Storie che fino a marzo 2017 non esistevano sulla nostra stampa, non c’erano segnalazioni del gioco, non c’erano genitori che lo accusavano di aver portato via i loro figli, in Italia il Blue Whale era qualcosa di nicchia relegato in angoli oscuri del web.

Oggi invece vediamo gli stessi giornalisti che han tirato fuori la storia chiamare la Polizia per farsi confermare questi casi di tentati (o completati) suicidi, il tutto senza rendersi conto che si sta facendo ancora la stessa identica cosa, soffiare su un fuoco che non andrebbe alimentato, non in quel modo.

Ad oggi, come spiegano tanti siti in giro per il mondo, non esiste prova che sia nato prima il gioco dei servizi dei media. Capiamoci meglio, ovvio che ce ne fosse traccia online, ma nessuna conferma che ci fosse qualcuno che ci avesse mai giocato o ci fossero dei “curatori” pre-esposizione mediatica. Quello che è certo è che finché ci verrà fatto sopra del sensazionalismo la vicenda continuerà a girare e a coinvolgere possibili vittime. È anche certo che su alcuni siti sia stato lanciato ben prima dei servizi italiani, ma è la norma. Esistono soggetti in rete che adorano creare fenomeni dal nulla, sfruttando le mille falle che ha la rete e cavalcando i social network con story telling che attirino l’attenzione dei media. Da qui all’esposizione mediatica il passo è breve.

I meme del dolore

Come spiegava WIRED US a luglio 2017:

Blue Whale is particularly horrendous, but there’s a constant stream of memes that encourage people—particularly, but not exclusively adolescents—to harm others or themselves for the sake of spectacle. The #saltandice challenge encourages them to endure the burn created on skin when salt is paired with ice as long as possible. The #knockout challenge involves striking an unsuspecting victim hard enough that she passes out. (…)

In the case of the Blue Whale Challenge, even as media reports proliferate in the US, Tumblr, at least, has found that data tells a different, more promising story. Searches for the terms on its platform peaked in May at around 60,000. The following month, they fell off by 68 percent. Perhaps the meme is fading into obscurity, where it belongs.

Che tradotto:

Blue Whale è (un meme) particolarmente orrendo, ma c’è un flusso continuo di meme che incoraggiano la gente – in particolare, ma non esclusivamente, adolescenti – a danneggiare altri o se stessi per lo spettacolo. La sfida #saltandice li incoraggia a sopportare la bruciatura che si forma sulla pelle tenendoci appoggiati sale e ghiaccio il più a lungo possibile. La sfida #knockout implica di colpire una vittima ignota abbastanza forte da farla finire a terra priva di sensi. (…)

Nel caso della Blue Whale Challenge, anche se i reportage dei media stanno proliferando negli USA, almeno Tumblr ha scoperto che i dati raccontano una storia diversa e ancor più promettente. Le ricerche sulla sua piattaforma hanno raggiunto il picco a maggio, intorno alle 60.000. Il mese successivo sono scese del 68%. Forse il meme sta sbiadendo nell’oscurità alla quale appartiene.

Purtroppo però non è così, il meme anche grazie a servizi come quello delle Iene di ottobre 2017 viene costantemente rilanciato in rete, e nel nostro Paese avremo l’ennesimo picco di visualizzazioni e condivisioni sull’argomento senza che ad oggi ci sia una prova che dimostri che il gioco era reale prima che ci mettessero questa esposizione mediatica, nata prima di tutto allo scopo di fare audience. Fare audience su qualcosa che se fosse un pericolo monitorato e reale andrebbe affrontato comunque dalle autorità e dalle istituzioni, rivolgendosi magari a docenti e genitori, non ai giovani, principali fruitori di questo genere di trasmissioni, facilmente vittime dell’effetto Werther. Non parliamo poi delle centinaia di sciacalli repressi che non vedono l’ora di bullizzare qualcuno dal di là di un monitor e non aspettano altro che nuovi stimoli e suggerimenti per farlo.

I suicidi in Sud America

Tutti gli esempi mostrati nel mondo sono successivi all’esposizione mediatica data a un fenomeno, che se fosse vero tutto quanto è stato raccontato fino a oggi esisterebbe dall’inizio del 2016. Tutti esempi in cui si utilizzano social network e Whatsapp, mentre prima occorreva arrivare su altri siti, almeno stando a quanto era stato raccontato fino a marzo 2017.

Non ci poniamo delle domande? A nessuno nelle redazioni viene l’idea di poter esser parte in causa nel fenomeno? Se i genitori intervistati in Sud America non avessero trovato traccia del Blue Whale in rete avrebbero detto, come tantissimi genitori di ragazzi suicidi, non mi ero accorto di nulla, non mi ha mai dato l’idea di essere depresso. Come qualsiasi psicologo potrebbe confermarvi, chi cade in queste trappole è perché le sta cercando, che i segnali siano visibili o meno.

Che ci sia o meno un “blue whale”.
Insegnare di più ai genitori come riconoscere i segnali di uno stato di disagio nei loro figli è importantissimo, ma non sta a noi o alla televisione commerciale farlo.

Ma l’infoteinement è anche questo. Se per caso a qualche giornalista interessasse, qui c’è il vademecum dell’OMS con i suggerimenti per trattare il tema del suicidio. Altrimenti continuate pure a cercare l’audience e a disinteressarvi di tutto il resto.

Sicuramente mi sono dimenticato di citare alcuni tra i tanti che hanno parlato della cosa una menzione d’onore tra i non linkati qui sopra va a Valigia BluDavid Puente e Sofia Lincos.
maicolengel at butac punto it
Se ti è piaciuto l’articolo, sostienici su Patreon o su PayPal! Può bastare anche il costo di un caffè!

pensate che a me basta guardare questo per 5 minuti per avere istinti suicidi…o no forse sono omicidi…