Il Tempo e l’h-index: giornalisti che parlano di cose che non sanno

Non nascondo un certo piacere nel vedere un crescente interesse dei non addetti ai lavori nei confronti dei parametri di valutazione della comunità scientifica. Questo perché per anni e anni ho assistito al costante incensare volti sconosciuti, personaggi a cui è stato dato il titolo di “scienziati” o “professori” quasi come fosse una sorta di premio acquisito con il televoto e non per reali meriti.

Detto questo però devo dire che, fin dal titolo, il taglio dato dai due articoli – di cui uno a firma di Franco Bechis – usciti il primo maggio “Il Tempo” mette in evidenza quanto poco viene capito di questi parametri quando a leggerli è una persona completamente priva di esperienza scientifica. E che evidentemente, come spesso accade ai giornalisti, non ha ritenuto necessario chiedere una consulenza.

Ma andiamo un po’ più nel dettaglio. Nell’articolo viene menzionato uno dei parametri più famosi ma anche uno dei più contestati: l’h-index. L’h-index è un parametro puramente bibliometrico (basato quindi solo sulle pubblicazioni scientifiche) che tiene a sua volta indirettamente conto di due fattori di grande importanza: il numero di articoli pubblicati e il numero di citazioni che questi hanno ricevuto.

Questo parametro non considera tutte le pubblicazioni scientifiche, ma solo di quelle su riviste ritenute autorevoli secondo parametri prestabiliti. Credo sia inutile perdere troppo tempo su questo punto, ma è ovvio che se pubblico sul giornalino della scuola le mie scoperte nel campo delle particelle sub-atomiche, nessuno nella comunità scientifica lo prenderà sul serio. Solo riviste che usano seriamente il sistema di peer review da parte di colleghi esperti in materia e hanno una buona reputazione possono essere considerati autorevoli.

Ma torniamo all’h-index. Calcolare questo valore è molto facile, è sufficiente contare. Rappresenta infatti il numero di articoli di uno specifico autore che hanno ottenuto un numero di citazioni almeno pari al numero stesso.

Sembra complicato?

Semplifichiamo allora. Prendiamo tutti gli articoli di Elia Marin e mettiamoli in ordine di citazioni (dal più citato al meno citato). Ha scritto almeno un articolo che ha ricevuto almeno una citazione? Sì. Due articoli che hanno ricevuto ciascuno almeno due citazioni? Sì. Dieci? Dodici? Quindici?

Lo metto in un grafico per praticità. La linea blu rappresenta il valore degli h-index, la curva arancione le citazioni delle mie pubblicazioni, dalla più citata alla meno. Il punto in cui queste due si incontrano (17) è il mio h-index.

Questo significa ad esempio che quando il mio 18esimo articolo, che ora ha 17 citazioni, riceverà una nuova citazione arrivando a 18, avrò 18 articoli con almeno 18 citazioni ciascuno, quindi un h-index di 18.

Vedete quella marea di articoli con 0, 1 o 2 citazioni? Sono tutti usciti nel 2019 e nel 2020, troppo recenti perché siano già stati citati nel lavoro di altri autori. Sì, perché il tempo è un fattore determinante dell’h-index. Un professore con molti anni di carriera accademica ha avuto non solo occasione di scrivere più articoli, ma anche molto tempo per ricevere citazioni. I suoi primi lavori facilmente raggiungeranno le centinaia di citazioni.

Questo significa che l’h-index tende a crescere con l’età, cosa che già di per sé ne mina l’uso come parametro di valutazione di “qualità” scientifica. Un professore anziano, ma mediamente inattivo, sarà comunque molto difficile da raggiungere anche per un attivissimo e volenteroso giovane ricercatore.

L’h-index, poi, considera valide tutte le autocitazioni. Se nei miei lavori uso come riferimenti bibliografici quelli precedenti, posso facilmente gonfiarmi da solo il punteggio. Per tentare di arginare il fenomeno era nato il g-index, dove le autocitazioni sono escluse, ma vedo che è molto poco usato in accademia. Il mio g-index comunque è 16, segno che le citazioni di me stesso da parte mia effettivamente contribuiscono al mio punteggio.

Ci sono altri modi di giocare con l’h-index: a volte ad esempio viene considerato solo quello degli ultimi cinque o dieci anni per vedere quanto è attivo il ricercatore. Quello del premio Nobel Montagnier passa così da 71 a 7 (dal 2010 al 2020), mentre il mio rimane 17 perché sono ancora bello attivo e pimpante.

Ma andiamo avanti. L’h-index non tiene conto del settore disciplinare. Non tutti i settori godono infatti della stessa fama: mentre se si parla di medicina non è così raro veder superare l’h-index 40 con l’età per un ricercatore mediamente attivo, ci sono settori disciplinari in cui 20 è un gran bel risultato. In certe aree della matematica, ad esempio.

Ma anche all’interno di un settore, non tutti i ricercatori lavorano sullo stesso argomento e non tutti gli argomenti sono di uguale interesse. L’HIV ad esempio è stato un argomento di punta con tantissime pubblicazioni (e citazioni) in passato, così come i coronavirus sono stati relegati a un ruolo di secondo piano fino al 2020 e oggi sono il santo graal della ricerca biomedicale. Un genio che pubblica articoli su un argomento di scarso interesse rimane un genio, anche se il suo h-index sale lentamente.

L’h-index è anche fortemente legato alla visibilità: un autore che riesce a vedere il suo nome in un articolo piazzato su una rivista importante verrà spesso citato per l’importanza della rivista, e non tanto per quella dell’articolo.

Ma c’è di più: l’h-index non tiene conto di dove sia il ricercatore nella lista degli autori delle pubblicazioni. Ci sono accademici che non hanno mai scritto un articolo in vita loro ma appaiono come co-autori nel lavoro di altri. Per l’h-index, aver scritto un articolo, averlo revisionato o essere solo una comparsa ha esattamente lo stesso valore. Questo significa che certi autori, che pubblicano centinaia di articoli all’anno come ultimo nome, lo fanno perché dirigono il gruppo di ricerca dove questi studi vengono portati avanti, ma spesso non hanno nessuna idea di quale sia il contenuto. Che non è esattamente la condizione ideale per ritenerli dei luminari nel settore.

Alternativamente, responsabili di particolari attrezzature molto utilizzate possono apparire in moltissimi articoli solo come “ringraziamento” per averle messe a disposizione. Un altro modo efficace di alzare l’h-index senza effettivamente partecipare alle ricerche.

Esiste anche lo scambio di autori: io aggiungo te se poi tu aggiungi me e alla fine abbiamo due articoli a testa invece di uno. O anche peggio: aggiungo agli autori il professor X dell’Università Y perché è uno famoso. Non sempre chiedendo il permesso.

“Ma Elia, anche le Università richiedono di avere certi valori di h-index per partecipare a bandi e per sottomettere domande di finanziamento!”

Sì, certamente. Perché è un parametro comodo e (spesso) perché premia l’età accademica, in un’accademia che è gerontocratica. Comunque, in un gruppo omogeneo di ricercatori che lavorano sulla stessa area e di età comparabile, può effettivamente dare un’idea della loro reale capacità.

Quindi, riassumendo: l’h-index non è un parametro di valutazione ma un indice puramente bibliometrico. Premia l’età accademica, premia specifici settori scientifici, premia la capacità di farsi mettere nella lista degli autori, anche se magari sono venti nomi e l’articolo è di tre pagine. Non tiene conto delle capacità individuali se non marginalmente.

Usare l’h-index come fosse una classifica di competenza significa non avere la minima idea di quanto ho scritto fino ad ora: voler per forza confrontare le mele non solo con le proverbiali arance ma anche con le palle da biliardo e con le bolle di sapone. Un po’ come voler misurare sia l’area di una piazza che la distanza inter-atomica usando un metro da sarta.

Se l’articolo fosse scientifico, la mia peer review sarebbe: “L’idea non è originale ed è stata già ampiamente smentita dalla comunità scientifica. L’autore dimostra di non aver competenze in materia e di non aver fatto le necessarie ricerche bibliografiche. Consiglio di rifiutare l’articolo nella forma presente e di sottoporlo nuovamente solo dopo attenta revisione da parte di qualcuno che sappia di ciò che si parla.”

L’amico Pellegrino Conte ha aggiunto qualche considerazione in più che merita di essere letta.

Elia Marin
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