Jessica Rabbit e la cancel culture…

...usare il termine a sproposito, e andarne anche fieri

Il 23 settembre sul sito di Radio DeeJay è stato pubblicato un articolo dal titolo:

Jessica Rabbit troppo sexy: la Disney la trasforma in un’investigatrice

Lo stesso su Huffington Post:

Jessica Rabbit troppo sexy: Disney la ridisegna e la trasforma in un’investigatrice

Repubblica del 21 settembre titolava:

Jessica Rabbit, addio donna fatale, Disney si adegua alla cancel culture

Ma anche La Nazione, che nel titolo andava oltre:

Jessica Rabbit è troppo sexy. E Disney le farà indossare l’impermeabile

E ancor peggio nel sottotitolo:

Un altro classico che viene rivisto in base al ‘politicamente corretto’ del mondo contemporaneo

Dando a intendere che ci siano delle modifiche al film (e che ce ne siano state in passato ad altri film della Disney: “un altro classico che viene rivisto…”) ma ci teniamo a precisarlo fin da subito, la storia di queste modifiche o eliminazioni è una bufala.

L’elenco di chi ha trattato la notizia in Italia è lunghissimo, ma ci fermiamo qui.  Quello che fa specie è che quasi tutti fanno preciso riferimento al termine “cancel culture” e noi onestamente ne abbiamo un po’ piene le scatole di vedere giornalisti riempirsi la bocca di parole e termini che non capiscono, facendo finta di essere uomini di mondo (un po’ come quando personaggi pubblici usano “piuttosto che” disgiuntivo pensando di sembrare finemente acculturati e invece dimostrano di non conoscere la propria lingua madre).

La prima cosa che vorrei fosse chiara è che Jessica Rabbit nel film era sì donna (di cartone) che faceva la femme fatale, ma il film sfrutta la sua figura e quella di altre donne in carne e ossa per spingere sul contenuto sexy, in una pellicola che all’epoca era uscita con solo l’indicazione “PG”, cioè indicando che il film era sì per tutti, ma nel caso dei piccoli meglio se accompagnati.

Hai un coniglio in tasca o sei semplicemente molto felice di vedermi?

Chi ha incastrato Roger Rabbit? è un film ricco di allusioni e di battute come questa. È un film che ho amato da cinno, ma che visto oggi capisco che abbia più di un punto critico. Non è che siccome contiene o è fatto tutto a cartoni animati allora un film è automaticamente adatto ai bambini, questo dovremmo ormai averlo capito da tempo…

 

Chi ha incastrato Roger Rabbit?, poi, non solo contiene scene sexy ma anche inadatte a un pubblico giovane: a inizio film ad esempio si vedono tre ragazzini, il più giovane non credo arrivi ai dieci anni, prendere un autobus a sbafo insieme a Eddie Valiant, e non contenti i tre appena saliti si scambiano tre sigarette. Cosa normalissima probabilmente nel 1947, anno in cui si svolge la trama del film, meno nel 2021. La scena è tutt’ora presente nel film.

Perché ripeto, nessuno ha cancellato nulla, e non c’è neppure l’intenzione di farlo. A inzio film, però, un avviso spiega che viene mostrata tanta gente fumare (per non parlare del quantitativo di alcol che si scola Valiant, di cui nell’aviso non viene fatto cenno).

Cancel culture sto par di maroni

Ma quello che vorrei sottolineare è che il termine cancel culture fa preciso riferimento a ostracismo o censura di figure/scene non più attuali o non ritenute adatte al mondo attuale. Jessica Rabbit non viene censurata nel film, nessun cambiamento viene fatto all’opera originale. Viene solo modificata un’attrazione in un parco Disney, una corsa in macchine cartoonesche, una corsa dedicata al pubblico di bimbi più piccoli.

Una corsa che come potete vedere qui sopra non ha molto a che vedere con la trama del film. Si sale su una macchina alla ricerca di chi abbia rapito Jessica, che alla fine del giro viene trovata legata dai cattivi Weasels. 

La Disney dopo quasi 30 anni senza una singola modifica all’attrazione ha pensato di rivederla, dando un ruolo più attivo a Jessica e collocando la trama dell’attrazione in un futuro successivo al film.

Jessica ha aperto la sua agenzia investigativa ed è sulle tracce dei cattivi complici che apparivano nel film. Nulla per cui strapparsi i capelli, nulla che abbia a che fare con della censura.

Pigrizia o scarsa voglia di approfondire

Ma è abbastanza evidente che a certa gente piace parlare di certe questioni a sproposito. Riporto dall’articolo di Radio Deejay:

L’elenco di classici Disney finiti nel mirino della stessa casa produttrice non è breve. Nell’ultimo periodo sulla piattaforma Disney + la visione di pellicole storiche come “Le avventure di Peter Pan“, “Dumbo” e “Gli aristogatti” è stata vietata a un pubblico minore di 7 anni, poiché ritenuta veicolo di trasmissione di stereotipi e messaggi dannosi e razzisti. Le motivazioni possono far sorridere le generazioni che li hanno sempre visti con l’ingenuità dei bambini.

Chi ha scritto questa frase perdonatemi ma è uno scansafatiche, perché nemmeno ha provato a verificare quanto sostiene. Non c’è “divieto” di alcun genere su due delle tre pellicole che cita, e ci volevano pochi secondi per verificarlo direttamente su Disney+. Questa è la scheda di Peter Pan:

Che riporta chiaramente “Classificazione 0+”, ovvero film per tutti. Il parental control che uso nemmeno si attiva se scelgo Peter Pan, ma all’inizio del film viene mostrata questa scheda:

Dove viene appunto spiegato che nel film sono presenti rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Nessun cambiamento è stato fatto alla pellicola. L’unico dei film menzionati che ha restrizioni è Dumbo, classificato 6+, perché si ritiene abbia scene non adatte a bambini di età inferiore. Ma dei tre citati è l’unico ad avere quella restrizione. Che però limita il contenuto solo se vostro figlio ha meno di 6 anni e se avete appunto impostato il parental control di Disney (cosa che ovviamente suggerisco di fare a tutti  i genitori, visto che da febbraio ci sono svariati contenuti per adulti come The Walking Dead, sicuramente non adatti a bimbi sotto i 6 anni).

Ma non è cancel culture

Nessuno ha rimosso alcunché. Nel caso di Jessica Rabbit, si è solo scelto di rinnovare un’attrazione vecchia e di renderla più attuale, cosa che viene fatta costantemente nei parchi di divertimento, altrimenti chiuderebbero tutti dopo i primi anni di successo. Nel caso dei film Disney, invece, è stato ritenuto corretto inserire un disclaimer all’inizio di quelli che riportavano appunto “rappresentazioni negative e/o trattamenti errati”, un semplice avviso che spiegasse che – sebbene all’epoca quel modo di fare fosse ritenuto corretto – ci siamo evoluti e sappiamo che prendere in giro le altre culture può essere offensivo. Da papà eviterò di fare ascoltare ai miei bimbi Radio Deejay mentre continuerò a fare vedere i film Disney, magari aiutandoli a capire il perché di quell’avviso, e cercando insieme a loro di scovare ogni rappresentazione errata per un film per bambini, sia all’interno di quei classici.

Papà, non si fuma

I bambini spesso sono più in gamba di noi: sono un ex fumatore, ho smesso di fumare a fine agosto del 2020, ma anche da prima i miei figli guardando cartoni e film del passato per piccoli dove si vedeva qualcuno fumare evidenziavano come questo fosse un pessimo esempio da dare. Ho smesso anche per questo.

Onestamente sono schifato dal giornalismo che vedo, da come ogni occasione sia buona per fare clickbait, cagnara, aizzare le folle su questa o quest’altra notizia, raccontandola male. È questo che insegnano alle scuole di giornalismo oggi? Se è così sono felice di non averle seguite, e comprendo perché ogni volta che vengo avvicinato da qualche membro di Ordini di giornalisti del Paese, e mi viene proposta una collaborazione con loro, dopo breve tempo la proposta venga ritirata.

Concludendo

Quanto raccontato dai giornalisti viene ripreso su tanti media, nessuno che si renda conto che fare giornalismo significa avere grandi responsabilità. Sì, lo so che stiamo parlando di un cartone animato, ma state tranquilli tra qualche mese saranno più i lettori finali che hanno sentito la notizia, e nelle loro testa l’hanno cristallizzata come verità assoluta, che quelli che avranno chiaro in mente che era una bufala, sfruttata da chi non sa più che diavolo scrivere per vendere due copie in più.

La cosa curiosa è che né l’autore di Repubblica né quello di Radio Deejay e nemmeno quello dell’Huffington Post risultano iscritti come giornalisti o pubblicisti all’Ordine. Solo quello della Nazione lo è, ha pure vinto un premio qualche anno fa.

La cosa triste invece è che su Repubblica qualche tempo fa era stato scritto un articolo che cercava veramente di spiegare cosa fosse la cancel culture, e quando ha senso usare quel termine, ma è evidente che pochi nelle redazioni italiane l’abbiano letto.

La cancel culture all’italiana come la teoria del gender: non esiste

Un po’ con questo significato la “cultura della cancellazione” è approdata in Italia: un termine ombrello in cui sono ricadute l’iconoclastia, la censura preventiva degli editori, le polemiche sulle favole e altre notizie arrivate soprattutto dagli Stati Uniti, dove però nessuno le definiva espressione della cancel culture.

Anche la destra italiana si è appropriata di questo concetto, trasformandolo nel sinonimo di quel “politicamente corretto” che “non ci permette più di esprimerci liberamente”.

Ma la cancel culture, vista sotto questa lente, è un po’ come la teoria gender. Non esiste. Anche se in Italia si è affermata proprio con questo significato.

Gente che fa parte dell’Osservatorio Italiano sulla disinformazione voluto dalla Commissione Europea.

Mah!

Non credo di dover aggiungere altro.

maicolengel at butac punto it

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