Le sfide dei nostri ragazzi

La rete e le challenge sui social

Avevamo deciso di non dedicare un articolo alla vicenda della “sfida online” che avrebbe portato alla morte di una bambina. Avevo scelto di evitare di parlarne qui su BUTAC perché, come credo sappiano quelli che ci seguono da tempo, non amiamo la facile viralità, preferiamo in certi casi un rispettoso silenzio. Peccato che quel silenzio non venga invece rispettato dai tanti giornalisti e influencer della rete, poco conta che si stia parlando di una bambina di dieci anni morta in circostanze non chiare. Avevo evitato di dedicare un articolo alla vicenda perché l’unica cosa che avrei voluto dire è che noi genitori dovremmo stare molto più attenti a quel che fanno i nostri figli. E so che alcuni l’avrebbero vista come un’accusa diretta verso quei genitori.
Siamo sempre lì pronti a mettere in dubbio la decisione della maestra di educazione fisica che in inverno fa giocare i ragazzi fuori (che poi si ammalano signora – e nessuno che spieghi loro che sono virus e batteri a farli ammalare, non lo sport all’aria aperta), ma quando i nostri figli sono liberi di giocare in luoghi che spesso non conosciamo (e non frequentiamo), come la rete, ci preoccupiamo assai meno. Eppure negli anni Ottanta e Novanta eravamo quelli a cui mamma e papà dicevano di non accettare caramelle dagli sconosciuti.
Comunque. Non ho parlato della vicenda e di rimando ho ricevuto mail passivo-aggressive dove mi si intimava di farlo, ho risposto privatamente a chi mi ha scritto, senza ovviamente ricevere risposta alcuna. Siccome però anche tra gli amici che mi seguono, in toni decisamente meno aggressivi, qualcuno ha chiesto il mio parere – che inizialmente ho dato con un post Facebook – probabilmente è giusto lo riporti anche sul nostro piccolo blog.
Il giorno della morte della ragazzina se si cercavano #hangingchallenge o #blackoutchallenge su TikTok si trovavano video che nulla avevano a che fare con il soffocamento, dopo una settimana di bombardamento mediatico senza tenere conto delle tante indicazioni di psicologi e medici vari ovviamente qualche imbecille che sceglie di cavalcare la notizia e rilancia challenge dedicate all’asfissia lo si trova sempre, ma non sono “una moda TikTok”. Esistono da sempre.
Uno studio della CDC americana tiene traccia dei tanti bambini e ragazzini morti per quello che chiamano il “choking game”, che esiste da prima che esistesse la rete. Ma solo con un controllo dei dati su scala nazionale e internazionale è possibile rendersene conto. Ne parlò TIME nel 2018 riportando numeri che andavano indietro fino al 1995. Ve lo assicuro, nel 1995 in rete al massimo ci sfidavamo a chi beveva più birre su mIRC. Ma i giornalisti nostrani non sono interessati ad approfondire. Loro hanno sentito che forse è colpa di TikTok e di una sfida online, e su quella scrivono, senza nemmeno tentare di scavare a fondo sulla questione. Sanno che è molto più utile demonizzare internet piuttosto che, magari, suggerire che anche i genitori abbiano delle responsabilità.
La cosa giusta da fare, invece, anche volendo dare una parte di responsabilità alla rete, sarebbe quella di spiegare bene le cose, magari dare indicazioni su come funzionano i sistemi di parental control. Ho due figli, e nessuno dei due per ora ha un cellulare. Il grande ha solo un anno in meno della protagonista di questo triste fatto di cronaca. Gliel’ho raccontato, perché so che ne avrebbe sentito parlare dai suoi compagni di scuola, in certi casi già muniti di telefonino e smart watch regolamentare. Gliel’ho raccontato perché sappia che la rete non ne ha colpa, ma che presenta comunque delle insidie e che il mio non dargli libero accesso non supervisionato è anche per tutelarlo da quelle insidie. I genitori vanno responsabilizzati su tutto questo. Devono smetterla di pensare che la rete sono solo cose finte. Smettere di distinguere tra vita vera e vita online.
Non ho parlato della bimba perché avrei dovuto dare almeno parte della responsabilità a dei genitori che hanno scelto di non considerare le regole che impongono di avere almeno 13 anni per essere iscritti a TikTok (anche se in realtà in Italia l’età legale per firmare un contratto del genere con l’assenso dei genitori è 14 anni, e 18 senza il consenso). Non volevo infierire contro chi sta già passando il peggio che può succedere a un genitore. Anche volendo abbracciare la tesi che sia colpa della rete, in rete a dieci anni senza una costante supervisione non ci devi stare. Sono dentro svariati gruppi di genitori, molti giustificano l’uso del web come babysitter, specie durante un confinamento forzato. Mi sono sentito dire che mentre loro sono in smart working e il bimbo ha finito i compiti non c’è niente di male a lasciarlo giocare online. Io sono d’accordo, anche a me succede di lasciarlo solo, ma ho installato sistemi di controllo sul suo device. Sistemi che ne limitano l’uso, e che mi segnalano per filo e per segno dove va in rete, cosa cerca, con chi chatta, che giochi usa, che video guarda. Alcuni esempi: Google e Microsoft mettono a disposizione nelle loro suite sistemi di controllo, se acquistate un antivirus è probabile che comprenda anche funzioni di questo genere, altrimenti esistono app come KidsGuardPro e NetNanny che sono software che magari costano un piccolo abbonamento, ma la tutela di mio figlio vale quei pochi euro spesi mensilmente. Non esiste cifra che potrebbe compensare che gli possa succedere qualcosa per colpa mia.
Lascereste vostro figlio solo in un bar frequentato da sconosciuti e lontano da casa? Non credo, e allora perché lì no e in rete sì? Se le forze dell’ordine trovassero un bambino a bighellonare per strada, potrebbero denunciare i genitori per abbandono di minore, lo sapete? Siamo d’accordo che infatti non succede spesso. Ma la legge lo prevede. Anche se lui sa tornare a casa e ha le chiavi per entrare. E allora perché non cercare di comportarci meglio coi nostri ragazzi in rete?
Ci piace trovare un colpevole a cui addossare le responsabilità, che forse andrebbero in realtà suddivise tra genitori, amici, ambiente che si frequenta. È molto più facile dare la colpa delle sfortune o disgrazie che ci accadono a un fattore esterno piuttosto che ammettere di avere una qualche responsabilità. Ma giochi pericolosi come il choking game esistono da sempre, fanno parte di quelle sfide che a una certa età in certi giri possono saltare fuori. Io mi ricordo bene che tra medie e liceo ogni volta che eravamo in gita c’era qualcuno che sfidava i compagni a bere qualche non ben definito intruglio, o a fare cose pericolosissime. Succedeva, e probabilmente ci sono ragazzi che si sono fatti male, anche molto, in seguito a questo genere di sfide.
Le testate che hanno sfruttato la notizia per attaccare i social sono probabilmente le stesse che quarant’anni fa accusavano Goldrake di turbare i bambini…
Non credo sia necessario aggiungere altro.
maicolengel at butac punto it

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