L’esperimento di Philadelphia

Della serie “Bufale vintage” dopo Titor, l’uomo che sarebbe venuto dal futuro, oggi ci occupiamo del cosiddetto “Esperimento di Philadelphia“, secondo il quale nel 1943 un cacciatorpediniere da 1650 tonnellate di stazza sarebbe scomparso dal molo della città della Pennsylvania per ricomparire a Norfolk, ovvero a 360 km di distanza in linea d’aria. Dopo pochi minuti la nave sarebbe scomparsa di nuovo per tornare esattamente al luogo d’origine.

Come già fatto in passato, per agevolarvi la lettura, vi anticipiamo l’organizzazione dell’articolo come segue:

Parte I – I fatti: descrizione e commenti probanti.
Parte II – La storia (in blu): per chi volesse di più su come si sviluppò la bufala.
Parte III – Conclusioni.

I fatti


Se da un lato Wikipedia adotta un approccio di tipo scientifico e razionale al fatto, come in realtà dovrebbe sempre essere, itesoriallafinedellarcobaleno .com ne esalta i toni come un (inspiegabile) “miracolo” della tecnologia dell’epoca. Peccato che la tecnologia sia figlia della scienza e la scienza di miracoli non ne fa: se 1+1 fa 2, o se preferite se oggi abbiamo il telefonino, c’è un motivo, ma esso non è affatto sovrannaturale.

Va altresì aggiunto, per dovere di obiettività, che il sito menzionato non è nemmeno riconducibile ai siti fuffa che infestano puzzolentemente la rete e quindi non è riportato sulla nostra inossidabile black list, in quanto sembra orientarsi più sulle vicende di vita passata, come “quando non c’era la lavatrice” o “i rimedi della nonna” (questi ultimi peraltro non sempre opportuni, visti oggi), ma anche arte antica e scultura in cui non metto becco per eccessiva e somma incompetenza personale.

È singolare quindi che un sito tutto sommato onesto cada in questi sensazionalismi pseudoscientifici, anzi, fantascientifici: saranno competenti in storia, ma di scienze lasciano molto a desiderare. Perché parlarne a vanvera?

La prima cosa che non quadra è esattamente nella descrizione del sistema che avrebbe indotto la “magia”:

Nel 1945 la marina statunitense decise di tentare un esperimento (conosciuto come “Philadelphia Experiment” o “Project Rainbow”) sulla base della teoria del “Campo Unificato” di Albert Einstein.

Non mi permetto di entrare in disquisizioni strettamente tecniche quando c’è di mezzo il grande Einstein, tuttavia mi limito a segnalare come, ancora secondo Wikipedia, tale teoria è ancora oggi definita una “ipotetica teoria”, e che se in settant’anni è rimasta ipotetica, evidentemente non sono subentrati fatti che abbiano potuto cambiarne lo stato. Ordunque le navi non si dovrebbero far sparire!

Il progetto aveva lo scopo di rendere invisibili le navi ai radar dei nemici durante la seconda guerra mondiale.

Ma se si fosse dovuto tentare solo l’invisibilità, perché poi si sarebbe attuato un procedimento di “teletrasporto”? Scienziati scalcinati e sprovveduti oppure narrazione pressapochista e incongruente, meglio detta bufala ante litteram?

Per farlo, era necessario generare un campo magnetico di incredibile intensità intorno alla nave stessa, installando nel suo guscio un’apparecchiatura composta da cavi elettrici lungo tutta la circonferenza dello scafo. Così, facendo passare una corrente di una certa intensità attraverso questo anello di cavi, si sarebbe creato un campo magnetico in grado di annullare il campo magnetico stesso della nave.

Come poteva la USS Eldridge avere un suo campo magnetico? Era forse stata magnetizzata? Aveva un suo nucleo di ferro liquido ad altissima pressione al suo interno, come la Terra? Se era magnetica perché non si è schiantata contro le altre navi o le stesse non vi si sono spiccicate contro? Misteri della scienza.

Inoltre, tale cacciatorpediniere era lungo oltre 150 m e largo quasi 20: quanti chilometri di cavo si sarebbero dovuti impiegare per generare un campo così forte? Ricordiamo che un campo elettromagnetico indotto dalla circolazione di corrente elettrica e ottenuto dall’avvolgimento di spire (la classica elettrocalamita) è tanto più intenso quanto più si aumenta la corrente (colei che genera il campo), si aumenta il numero di spire (coloro che fanno da “fattore moltiplicatore”) e si riduce il diametro delle stesse (poiché si riduce la distanza). Dunque quanta corrente si fece circolare e quante spire si fecero attorno alla nave? In un esperimento serio (reale, non triste) questi parametri dovrebbero essere i primi ad essere resi noti, poiché supportano il risultato.

Tale processo, che prende il nome di “Degaussing”, viene montato standard sui monitor dei computer e sui televisori, per evitare la magnetizzazione del tubo catodico.

Sì, vero: chi accendeva i vecchi TV a tubi catodici poteva udire quello strano rumore tipo “scrhh” e se in quell’istante ci avesse messo vicino i capelli o i peli del braccio, li avrebbe sentiti rizzarsi: potenza dell’elettrostatica. Durava tuttavia pochi secondi e poi la sua corrente scendeva a zero: serviva per evitare possibili precedenti magnetizzazioni ai fosfori del tubo catodico, provenienti da fonti esterne. E chi vi scrive, in un momento di adolescenziale ispirazione gaussiana, provò personalmente l’effetto avvicinando una calamita al vetro dello schermo: si formò una grossa macchia violacea tra le urla indiavolate di mio padre che credeva avessi danneggiato permanentemente il primo televisore a colori di famiglia. Ma spento e riacceso l’apparecchio, il degaussing (o circuito di demagnetizzazione) ripristinava la corretta immagine, assieme al cessato allarme di mio padre. Non vi preoccupate, era solo uno dei molteplici “esperimenti” (e non solo) che, come potete ben immaginare, tanto facevano inalberare i miei genitori.

Ma questo cosa centra con la nave? Mica era magnetizzata! E se anche lo fosse stato (ammettiamolo) smagnetizzare 1600 tonnellate di ferro non è come smagnetizzare dei fosfori di un tubo catodico, la cui eventuale carica magnetica non attrae manco uno spillo.

L’apparecchiatura di Degaussing fu installata nel guscio della nave USS Eldrige. L’esperimento, svolto una prima volta il 22 luglio del ’43, venne ripetuto nell’Ottobre dello stesso anno a Philadelphia, ma mentre nel primo caso si ottenne l’invisibilità della nave, con conseguenze relativamente gravi sui componenti dell’equipaggio, che avvertirono nausea e capogiri, le conseguenze del secondo esperimento furono devastanti.

Dunque i fatti cui si riferisce Wikipedia sarebbero relativi al secondo esperimento, quello di ottobre.

La nave, questa volta, scomparve realmente dietro un forte flash azzurro

Ah… stavolta scomparve realmente, mentre a luglio fu resa solo invisibile ma senza flash azzurro. La descrizione rasenta l’infantilismo narrativo delle scuole elementari: il segreto dev’essere certamente nel flash azzurro…

materializzandosi in Virginia e, successivamente, di nuovo nel molo di Philadelphia. Alcuni marinai scomparvero totalmente, altri impazzirono e 5 di loro furono ritrovati fusi con il metallo della struttura della nave.

Perdonate se commento senza portare prove scientifiche, tuttavia mi sembra di leggere davvero un’avventura di Topolino alla caccia di qualche scienziato pazzo che, in combutta con Gambadilegno o Macchianera, vuole conquistare il mondo.

Il tutto ovviamente ci viene raccontato senza prove, fotografie, documentazioni ufficiali, referti medici, di Polizia o di Marina. Generalmente sui più grandi fatti, anche dell’epoca, ci sono testimonianze visive, immagini o filmati: il rogo dell’Hindenburg nel New Jersey, lo sgancio di Little Boy su Hiroshima, Marconi, Tesla e le loro apparecchiature.

Qua il nulla! Lo zero assoluto. Anzi, il sottozero assoluto!

Gli uomini che riuscirono a sopravvivere non furono più gli stessi e riportarono conseguenze irreversibili nel sistema nervoso centrale. Nonostante le numerose testimonianze, ancora oggi, tra le annotazioni nel ramo operativo degli archivi del centro storico navale, non esiste alcun documento che confermi l’evento.

Ah sì? Ma va… Chissà mai perché?

Ad ogni modo, le forze toccate o trattate inavvertitamente, si rivelarono più grandi di quanto immaginato e la situazione sfuggì al controllo, finendo in tragedia. Non fu intrapreso nessun altro esperimento del genere.

Ah, ecco… Mi pareva… Siccome la cosa era troppo grossa, smisero di fare esperimenti! Fantastica deduzione logica!

Sì, di un bambino!

Anche a Los Alamos si progettò una cosa molto grossa, ma la si sganciò due volte sul Giappone e oggi di quelle cose sulla terra siamo pieni.

Non so se notate la sottile differenza tra un fatto fuffa e uno reale, ma soprattutto le conseguenze oggi: bombe atomiche a bizzeffe e niente teletrasporto. Ponetevi delle domande e datevi delle risposte.

Senza saperlo era stato trovato il modo di smaterializzare la materia.

Ma guarda un po’! E oggi sono tutti così fessi da non usare tale “smaterializzazione”. Pensate, un volo di linea da Roma a Sydney: 16.000 km. Ma quanto kerosene serve? 10 litri/km? Un Boeing 747 fa il pieno con oltre 200.000 litri.

E le interminabili colonne mattutine e serali in tangenziale grazie alle quali a Bologna ebbi la residenza honoris causa negli anni Novanta? Sarebbe bastato attuare il “teletrasporto” e tac… fatto! Niente Boeing, niente 200.000 litri di kerosene, niente CO2. Niente più traffico in strada e colonne in tangenziale. Però nessuno lo fa e soprattutto nessun centro di ricerca ne ha mai ammesso la plausibilità.

Uhm… abbiamo detto nessuno?


 

Come potevano farlo settant’anni fa? Chi lo sa alzi la mano! (Kirk, Spock, zitti voi!) Che ci siano i soliti complotti con le lobby petrolifere e aeronautiche, così da tenere segreta tale invenzione? Come il motore ad acqua, insomma…

Ancora una domanda: dove sono i dettagli tecnici, calcoli, equazioni o altro che spieghino come trasferire gli oggetti a distanza, smaterializzandoli? Chi sa spiegare come funzionerebbe il teletrasporto? Come si attuerebbe la scomposizione molecolare (o atomica) prima, e la sua ricomposizione poi? Dove e come viaggerebbero le informazioni che descriverebbero i dettagli esatti della ricomposizione, poiché ogni cosa è diversa da un altra?

Manco nei film di fantascienza si sa! Ovvero: dal dire al fare c’è di mezzo… una galassia.

Anche se non fa rima!

La rivista New Scientist riporta la notizia che ricercatori russi e americani hanno sperimentato un modello di disco volante al Rensselaer Polytechnic Istitute di Troy, vicino a New York, sotto una èquipe guidata dagli scienziati Leik Myrabo e Yuri Raizer. L’avvenimento è riportato anche dal quotidiano “La Nazione” del 16 febbraio 1996 :”Il veicolo sarebbe in grado di raggiungere elevatissime velocità con un consumo minimo grazie ad un raggio laser, o microonde, che, puntato nella direzione desiderata, crea una sorta di cono mobile che lo risucchia. Il raggio surriscalda lo spazio davanti al disco, fondendo le molecole d’aria che si trasformano in un plasma che fluisce verso il disco e crea un’area a forma di cono in cui l’attrito è minimo.”

Laser o microonde? C’è una certa differenza tra ciò che legge il vostro disco CD e ciò che scalda la vostra colazione nel fornetto. Forse al posto di microonde si sarebbe dovuto parlare di maser, cioè un emettitore di microonde coerenti oggi poco usato, eccetto che nei misuratori atomici e radiotelescopi.

E poi chissà cosa c’entrano laser / maser / dischi volanti con il presunto esperimento di Philadelphia? Se negli anni 90 si fossero davvero provati questi “motori” futuristici, perché a distanza di oltre 2 decenni nessuno nella quotidianità li applica? Dove sarebbero tali sistemi propulsivi? E i loro impieghi? L’ennesimo segreto segretissimo che nessuno ci vuol dire?

La Repubblica all’epoca (1996) davvero diede la notizia commentando: “I dischi volanti, gli “Ufo” di memoria orwelliana, starebbero per diventare molto presto una realtà“.

Poffarbacco! E pensare che io continuo ad usare una volgarissima automobile! Ma vi giuro che domani compro un bel disco volante. Con teletrasporto, ovviamente.

Avete capito perché si usa sempre il condizionale, vero? Assieme alle parole “sembra” e “pare” sono i magici salvacondotto per spacciare ciò che si vuole: sim-sala-bim e… et voilà! “Pare che Butac sia il sito più cliccato al mondo”.

In effetti dall’immagine sopra pare davvero che siamo i campioni del mondo. Peccato che sia l’ennesima prova che anche i dilettanti della grafica come me possono taroccare le immagini da farvi bere!

Salute! Anzi… Diffidate. Di tutto!
Ancora l’articolo:

In effetti quali porte ha aperto, anche se casualmente, l’esperimento Philadelphia? Quali risultati sono stati raggiunti in seguito? Sono emerse altre storie dalle quali si apprende che gli esperimenti sono continuati….

Giudicatelo voi in base ad alcune tecnologie in essere: la Stazione Spaziale Internazionale, gli aerei Stealth, la clonazione biologica, gli smartphone e il computer quantistico… vi pare ci sia qualche erede degli esperimenti di settant’anni fa, quando non esistevano i semiconduttori?

A proposito: prima si diceva che “Non fu intrapreso nessun altro esperimento del genere” e ora salta fuori l’esatto contrario: “si apprende che gli esperimenti sono continuati”.

Inizio davvero a pensare che l’autore di questa cazzata possa essere un adolescente. Io l’avrei certamente realizzata meglio, e onestamente non ci vuole molto!

Anche se tutto sembra un racconto fantastico, la soluzione del mistero dell’USS Eldrige e del Philadelphia Experiment sembra ancora lontana; nessuno sa cosa realmente sia accaduto, ma molti ne hanno parlato.
Forse dietro questo forzato silenzio, si nasconde la più affascinante scoperta scientifica del XX secolo, una scoperta su cui, da oltre 70 anni, qualcuno sta ancora lavorando…

Per noi, prove e plausibilità alla mano, questo fatto è un racconto fantastico. Fantastico inteso come “di fantasia”, non certo “superlativo”.  Peccato che ci sia ancora qualcuno che voglia trasferirgli quell’aura leggendaria, ma si sa, in un mondo dove non si sa più come attrarre lettori, tutto fa brodo. E soprattutto se nessuno sa cosa sia accaduto realmente, molto probabilmente è perché il fatto non si è mai verificato.

Anche perchè nel 1999 in una reunion dei marinai della USS Eldridge, essi dichiararono che la nave, varata il 27 agosto 1943, era rimasta in porto a New York fino a metà settembre, e nell’ottobre dello stesso anno era partita per il suo viaggio inaugurale alle Bahamas rientrando a Long Island il 18 ottobre.

Secondo i dati del giornale di bordo del 1943 la Eldridge non è mai stata a Philadelphia. La nave, inoltre, è documentata in servizio regolare sino al 1951 per la US Navy, e in seguito risulta venduta alla marina greca per cui ha operato fino al 1977; in nessun momento della sua vita la nave avrebbe sofferto di sparizioni di componenti dell’equipaggio.

Infine l’ONR nel 1996 dichiarò che non aveva mai condotto alcuna ricerca sull’invisibilità, sia nel 1943 che in qualsiasi altro momento, anche perché l’organizzazione fu stabilita nel 1946, dichiarando dunque l’esperimento di Philadelphia come perfetta “science fiction”.

Vi basta?

Se vi basta, il nostro articolo potrebbe anche terminare qui, tuttavia per amore di una informazione integrale (e per gli assetati di dettagli) vogliamo aggiungere alcuni particolari inerenti a questa storia, in quanto è interessante vedere come di tale fatto si sia iniziato a parlare solo da 1955, cioè oltre dieci anni dopo. Di seguito dunque non riporteremo fatti probanti ma prettamente storici, presi da Wikipedia. Li abbiamo scritti in blu per agevolarvi al meglio: se proseguire nella lettura o se saltare alle conclusioni finali.

La storia della bufala

Una storia di libri e di film.


Nel 1955, Morris K. Jessup, un astronomo dilettante, avanzò un’ipotesi sull’uso delle forze elettromagnetiche nella propulsione spaziale degli UFO che egli stesso dichiarò aver osservato. Egli criticava pubblicamente l’uso dei razzi come propulsori per la conquista dello spazio, poiché il loro sviluppo avrebbe distolto risorse da altri campi di ricerca secondo lui più promettenti.

Nello stesso anno, Jessup affermò di aver ricevuto tre lettere firmate da un certo Carlos Miguel Allende, nelle quali l’autore avrebbe citato l’esperimento di Philadelphia, riferendosi ad una serie di articoli di giornali scandalistici che ne parlavano senza però riportare alcuna fonte o elemento verificabile. Secondo quanto riferito da Jessup, Allende avrebbe raccontato nelle lettere di essere stato testimone oculare dell’esperimento mentre si trovava su una nave nelle vicinanze, la SS Andrew Furuseth. Inoltre Jessup riferì che Allende sarebbe stato a conoscenza della scomparsa e del destino di alcuni membri dell’equipaggio della Eldridge.

Sempre da quanto fu riferito da Jessup riguardo alla corrispondenza che aveva ricevuto all’epoca da Allende, a una richiesta di approfondimento da parte sua, Allende avrebbe risposto solo dopo mesi identificandosi questa volta col nome di Carl M. Allen, dichiarando di non poter fornire ulteriori prove, ma che le stesse sarebbero emerse tramite ipnosi di altre persone coinvolte se si fosse cercato a fondo. A questo punto ritenendo di non poter procedere nella sua indagine Jessup riferì di aver deciso di interrompere questa corrispondenza. Nonostante apparentemente la questione dell’esperimento fosse stata nel frattempo accantonata anche da parte di Jessup, nella primavera del 1957 egli riferì di essere stato contattato dall’Office of Naval Research di Washington D.C.

Secondo quanto da lui affermato, l’ente aveva ricevuto una copia del suo libro: The Case for the UFO (1955), con numerose annotazioni da parte di tre persone che trattavano di due tipi di creature che avrebbero vissuto nello spazio. Tra queste vi sarebbero state anche annotazioni che alludevano all’esperimento di Philadelphia, come se chi scrivesse ne fosse a conoscenza. Tali affermazioni da parte di Jessup riportarono all’attenzione dell’opinione pubblica l’argomento dell’esperimento Philadelphia, facendo circolare diverse ipotesi alcune delle quali ipotizzavano persino che gli autori di queste annotazioni potessero essere stati degli extraterrestri.

Ad un confronto calligrafico, sembrò comunque che uno degli autori delle note risultasse essere senza dubbio Allende/Allen, e anche le altre sarebbero state scritte dalla stessa persona, ma con penne diverse. L’indirizzo del mittente corrispondeva ad una fattoria abbandonata. In seguito venne pubblicata un’edizione limitata del libro di Jessup col testo annotato, e questi tentò di continuare a scrivere su altri misteri con poco successo. Jessup fu trovato morto nel 1959 nella sua autovettura. La sera prima aveva organizzato un appuntamento, al quale in mattinata non arrivò mai. Nell’incontro si proponeva appunto di divulgare ulteriori prove e retroscena che aveva trovato del suddetto esperimento. Nonostante non siano mai state accertate con certezza le cause della morte, gli investigatori sostennero l’ipotesi del suicidio dovuto al crollo di notorietà, mentre per i sostenitori della teoria del complotto Jessup fu assassinato per metterlo a tacere.

Nel 1965, Vincent Gaddis pubblicò Invisible Horizons: True Mysteries of the Sea, dove citava alcune parti del testo annotato di Jessup. Tuttavia già attorno al 1977 l’intera faccenda era stata quasi dimenticata, ma venne ripresa in seguito da Charles Berlitz, che la incluse nel suo Senza traccia (Without a Trace: New Information from the Triangle1977), il seguito di Bermuda, il triangolo maledetto (The Bermuda Triangle1974), libro che creò il mito del triangolo delle Bermude. [Anche questa fu una grande leggenda in cui di inspiegabile non ci fu nulla, ma questa è un altra bufala vintage per il futuro – ndr]

Il testo di Berlitz conteneva numerose imprecisioni, manipolazioni volontarie di dati e divagazioni per dare un aspetto scientifico alla pubblicazione, e il recupero dell’esperimento di Philadelphia sarebbe stato tra questi. L’esperimento viene infatti incluso tra i misteri del Triangolo, nonostante Philadelphia si trovi a centinaia di chilometri da questo e non abbia nulla a che fare con le Bermude.

Il libro di Berlitz ebbe molto successo, grazie anche all’ascesa della moda della letteratura di misteri e del complottismo. Nel 1978 George E. Simpson e Neal R. Burger pubblicarono Thin Air, un romanzo basato vagamente sulla vicenda dell’esperimento di Philadelphia .

Berlitz, cavalcando il successo del libro del 1977, nel 1979 pubblicò insieme a William L. Moore The Philadelphia Experiment: Project Invisibility, che riprendeva alcuni spunti narrativi da Thin Air, raccontandoli come fatti reali o trascrizioni di interviste. Berlitz si ispirò talmente al romanzo, copiandone intere parti, da essere accusato di plagio. Dal libro di Berlitz, ma soprattutto da Thin Air, furono tratti i due film di fantascienza: The Philadelphia Experiment del 1984, e il seguito Philadelphia Experiment 2 del 1993.

Nel 1990, durante una conferenza, Alfred Bielek confermò l’avvenimento dell’esperimento dichiarando di avervi partecipato, e di esserne uno dei pochi sopravvissuti. Egli affermò di essersi trovato catapultato nel futuro, in particolare di aver vissuto per circa 6 settimane nell’anno 2137 e poi per 2 anni circa nel 2749, affermando di aver visto il mondo completamente diverso, e poi nel 1983, venendo poi fatto tornare indietro da John Von Neumann (uno degli scienziati che prese parte al progetto e che Bielek sostenne di aver incontrato nel futuro) nel passato per tentare di spegnere l’apparecchiatura a bordo della nave. Tuttavia lo stesso Bielek sostenne che le incoerenze del suo racconto siano dovute al processo di recupero della memoria a causa del lavaggio del cervello a cui fu sottoposto, ed è proprio per tale motivo che i suoi ricordi siano stati confusi.

Ad una verifica da parte di alcuni studiosi ed appassionati, emerse rapidamente che Bielek non si trovava nemmeno nelle vicinanze di Philadelphia, che aveva cambiato la propria versione dei fatti decine di volte, che i fatti riportati non coincidevano con altri dati verificabili e che aveva già in passato prodotto documentazione falsa per supportare i propri discorsi. Ciononostante, Bielek ottenne una discreta esposizione mediatica per quasi un decennio, intraprendendo una redditizia attività di conferenziere e creandosi un piccolo seguito.

Conclusioni


Siete sazi ora? Sazi di navi che spariscono e di teletrasporto? Di dischi volanti, di triangolo delle Bermude, di catapulte del futuro e lavaggi del cervello… Tutto il classico repertorio in voga negli anni Cinquanta. E anche nei Sessanta. Poi nei 70, 80, 90, 2000 sino ad oggi! Controllate in rete, se non ci credete: la creduloneria è ai massimi storici!

Sembra davvero un racconto di Topolino.

Lola Fox
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