Lo stabilimento di produzione e la “vergogna”

Davvero cambierà qualcosa senza l'obbligo dello stabilimento di produzione?
Davvero cambierà qualcosa senza l’obbligo dello stabilimento di produzione?

Finora non avevo mai letto nulla da TzeTze, sebbene fossi a conoscenza del loro stile. Una segnalazione di mi ha spinto a controllare un articolo senza dubbio recente: esso riporta infatti un post su Facebook del 14 Novembre, ma – fatto strano – in tutta la pagina non viene indicata la data della pubblicazione.

Da dicembre sparisce la sede dello stabilimento di produzione dall’etichetta

Occhio alla spesa. Dal 14 dicembre cambia tutto. Mentre le forze dell’ordine si fanno in quattro per fermare le contraffazioni alimentari, il governo Renzi cosa fa? Cancella l’obbligo di citare lo stabilimento di produzione nell’etichetta.
Ce ne parla Giuseppe L’Abbate, deputato 5 Stelle:

“Sapete perché il Governo Matteo Renzi non lascerà l’obbligo di dicitura dello stabilimento di produzione e/o confezionamento sull’etichetta? Perché manca uno strumento normativo, cioè manca una legge! Il Governo Renzi, che emana un decreto a settimana, viene a dirci in Aula che manca la legge che obblighi questa disposizione. Siamo proprio il paese dell’incontrario. Quando è nell’interesse delle piccole e medie imprese italiane e della salute e della tutela di tutti i consumatori un decreto legge pare non si possa fare. Complimenti Renzi!”

Insomma, una vergogna.

Poteva mancare la “vergogna”? Riportano anche un commento scandalizzato di un lettore del Fatto Alimentare, dove si discuteva dell’argomento a Settembre, ma non si approfondisce minimamente l’argomento come meriterebbe. La notizia viene riportata così: “Governo cancella l’obbligo –> vergogna”.
Mi trovo favorevole alla obbligatorietà della indicazione dello stabilimento di produzione. Non voglio difendere il Governo, ma stranamente mancano dei dettagli molto importanti, alcuni dei quali presenti negli stessi commenti sul Fatto Alimentare. Mi sento dunque in dovere di fare qualche precisazione.
Non vedo il nesso con le contraffazioni alimentari, forse non sono abbastanza gentista. TzeTze, oltre a dimenticarsi di alcuni dettagli, effettua un cerry picking sui commenti: l’importante è trasmettere la vergogna, non le informazioni.
Dato fondamentale: il Governo non ha cancellato nulla. Non è stato rinnovato l’obbligo del mantenimento di questa dicitura, cioè è decaduto questo obbligo e non si è voluta creare una normativa che la instauri nuovamente. Fra l’altro questo viene riportato poco sotto il “vergogna”:

il Ministero per lo sviluppo economico ha effettivamente espresso l’assenza di volontà rispetto al mantenimento dell’obbligo nazionale di citare la sede dello stabilimento (di produzione e/o confezionamento) sulle etichette dei prodotti alimentari venduti in Italia[…]

Potrebbe sembrare una differenza troppo sottile per molti, ma viene fatto passare in secondo piano l’aspetto “nazionale” dell’obbligo. Per essere più chiari, questo obbligo era stato aggiunto dal Governo italiano nel decreto 109/92 e non era comunque obbligatorio per i prodotti provenienti da altri paesi UE. Esso verrà meno dal 14 Dicembre 2014, data che segna l’entrata in vigore della normativa europea 1169/11.

[…] tuttavia, la prescrizione italiana della sede dello stabilimento potrà venire mantenuta solo a condizione che il Governo italiano provveda alla notifica di tale norma alla Commissione europea, ai sensi del regolamento predetto. E il Ministero per lo Sviluppo Economico, per sua parte, non ha manifestato interesse in tal senso.

Possiamo essere d’accordo o meno con le intenzioni dell’attuale Governo, ma essere in Europa vuol dire avere norme comuni e regole valide per tutti. Ora qualcuno si starà già stracciando le vesti e urlando alla “dittatura europea”, ma operando una sana e normale opposizione in Parlamento, corroborata da proposte valide, l’argomento avrebbe potuto essere affrontato meglio. E di certo non a un mese dalla entrata in vigore del nuovo regolamento.
Ci sono delle importanti precisazioni da fare però, tutto materiale che TzeTze poteva prendere comodamente nei commenti.
Per prima cosa nulla è cambiato per tutti i prodotti provenienti al di fuori dell’Italia. Non è obbligatorio con la direttiva europea, non lo era col decreto italiano. Altro dettaglio molto importante è che

[i]l presente regolamento si applica fatti salvi i requisiti di etichettatura stabiliti da specifiche disposizioni dell’Unione per particolari alimenti.

Vuol dire che ogni tipo di alimento potrebbe avere requisiti specifici che questa normativa non va a toccare: esempi lampanti sono i prodotti DOP e IGP.
Un buon lavoro giornalistico sarebbe stato quello di controllare, o chiedere a qualche esperto, per quali prodotti risulteranno differenze con la nuova normativa. Per il vino non ci sono sicuramente modifiche; per alcuni prodotti ortofrutticoli e carni non dovrebbero esserci variazioni. L’articolo 26 della direttiva europea approfondisce l’argomento, bisognerebbe andare a verificare anche le precedenti direttive 509 e 510/2006.
Se qualcuno avesse dati ancora più precisi, saremo aperti a suggerimenti: non essendo esperti del settore, per noi è difficile analizzare e spiegare le normative europee. Qui potete trovare un riassuntone dei cambiamenti previsti dalla nuova direttiva. Concordiamo però tutti su un fatto: un conto è fare informazione, un altro è fare sterile propaganda politica.
Vorrei anche far presente che “assenza di obbligo” non significa “divieto”. Infatti, le aziende italiane possono continuare a indicare questa informazione sulle etichette e il consumatore può scegliere cosa comperare anche in base a queste scelte.
Si può informare il lettore senza attaccare una parte politica e senza sostenerne un’altra. Lo si può fare con un’arte che oramai è caduta in disuso.
Si chiamava giornalismo.
Ricordatevi di amare col cuore, ma per tutto il resto di usare la testa.
neilperri @ butac.it
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