L’Unione Europea, direttive, diktat e leggende urbane

diktat

Diktat assurdi o tanto pseudogiornalismo?

La domanda per tanti di voi è scontata, per alcuni l’Unione Europea è il cattivone che fa solo danni al nostro paese, e così vediamo pubblicati articoli come quello uscito sul Resto del Carlino (QN) il 16 marzo 2016, a firma Elena G. Polidori. Lo stesso articolo online viene postato da NewsNotizie WInEuropa:

LA PAROLA chiave è «recepimento», brutta abbastanza per dimostrarsi inesauribile fonte dei nostri guai normativi. Viene sfoderata, ormai con sempre maggiore frequenza, dai politici nostrani, quando si trovano a dover – appunto – «recepire» qualche legge europea nel nostro ordinamento. Il problema è che dentro questo flusso di norme, ci si trova un po’ di tutto. Anche cose inutili o, peggio, assolutamente ridicole. Che dire, per esempio, della legge del 2000 che regola i decibel dei tosaerba per limitare l’inquinamento acustico? E di quell’altra direttiva bizzarra, del 1989, che fissa la definizione della camicia da notte? Perché l’hanno scritta? Per evitare «adulterazioni» dei tessuti.

Non è mia intenzione sindacare sui 150 milioni di euro di multe, ma vorrei che analizzassimo i claim che la Polidori fa nel suo articolo (sia chiaro: tutte informazioni che ho visto circolare anche con altre firme su svariate testate).

I tosaerba e i decibel

Partiamo dal primo claim, l’unione europea regola i decibel dei tosaerba, per la Polidori normativa assolutamente ridicola. Sì, è vero, nel 2000 viene emesso un documento dedicato alla riduzione dei decibel (non legata ai tosaerba, ma molto più articolata), come spiega il documento che tutt’ora si trova in rete:

It is evident that people reporting noise-induced annoyance experience a reduced quality of life. Unfortunately, and this is a reality for at least 25% of the EU population.

Quindi il documento che vuole ridurre il “rumore” viene da un analisi che vede almeno il 25% dei cittadini europei lamentarsene. Non proprio pochissimi, un quarto degli abitanti dell’Unione.

Inaction would mean that the problem of noise would further increase and that, because of population increase and the increase of traffic, future mitigation measures would become more expensive.

Sempre lo stesso documento spiega che il problema è che la popolazione cresce costantemente, così aumenta il traffico e così aumentano le possibilità di rumori fastidiosi. Non intervenire per tempo nel cercare di ridurre quest’inquinamento acustico può solo far sì che le cose peggiorino e aumentino i costi per intervenire. Nel documento di presentazione si fa riferimento a tantissime cause di inquinamento acustico, e viene spiegato chiaramente che le linee guida vanno poi applicate (in base alle possibilità) dai singoli paesi membri. Non c’è una polizia europea che vi verrà a fare la multa se il vostro tosaerba fa troppo rumore.

I pigiami da notte

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Ceci n’est pas un pigiamà.

Anche qui la disinformazione regna totale, perché NON voler fare il proprio mestiere in maniera decente va di moda. Sì, è vero, l’Unione Europea ha imposto delle linee guida per la composizione dei vari indumenti in vendita sul territorio, ma perché l’ha fatto? Perché esistono dazi e permessi per importare abbigliamento dall’estero, dazi e permessi che da alcune aziende non venivano pagati sfruttando dichiarazioni false. Un esempio?

 Negli anni 1988 e 1989 la Neckermann importava articoli d’ abbigliamento dichiarati come pigiami. L’ autorità doganale convenuta (Hauptzollamt Frankfurt am Main-Ost) successivamente decideva, sulla base di un rapporto di ispezione, che i beni in questione avrebbero dovuto essere classificati come giacche e pantaloni e, in un caso, come tute.

L’azienda Neckermann  alla fine degli anni 80 faceva entrare in Europa giacche e pantaloni dall’estero, dichiarandoli come pigiami, e pagando tasse diverse per la loro messa in circolo. Penalizzando così chi invece seguiva le regole doganali. Ma evidentemente la nostra giornalista quei cinque minuti che io ho impiegato per trovare quest’informazione non li aveva, lei la pagano, a me no.

Le gabbie delle galline

Ma sì dai, continuiamo a sparare a zero, che tanto chi vuoi che controlli.

… per fortuna siamo riusciti a evitare la procedura d’infrazione per le gabbie delle galline, troppo strette secondo le regole di Bruxelles. Ovviamente ci si deve adeguare, con costi enormi per le aziende.

PER FORTUNA? Signora Polidori, ma lei è seria? Le galline che le permettono di mangiare l’ovetto ogni giorno vivevano (e probabilmente tutt’ora vivono) non in splendide fattorie dove il sole sorge ogni mattina tra le colline verdi, ma in capannoni dove vengono allevate in batteria, che si sia deciso di essere un filo più umani nei loro confronti credo sia qualcosa da non denigrare. Specie quando la legge (come quasi tutte quelle europee) è entrata in vigore così:

The directive, passed in 1999, banned conventional battery cages in the EU from January 1, 2012 after a 13-year phase-out. Battery cages were already banned in Germany, Austria, the Netherlands and Sweden prior to 2012.

Quindi nel 1999 si è promulgata la normativa che sarebbe entrata in vigore nel 2012, agli allevatori sono stati dati tredici anni per mettersi in regola, TREDICI anni durante i quali nessuno ha elevato la benché minima sanzione, tredici anni durante i quali le aziende avrebbero potuto programmare la sostituzione delle gabbie che sarebbero diventate illegali, spalmando la spesa per adeguarsi su un periodo abbastanza lungo per non esser di peso ai loro bilanci. E invece no. Ma per fortuna abbiamo evitato la multa, non ce la saremmo affatto meritata.

I mazzolini di mimose

COSÌ una direttiva Ue impone che i ramoscelli di mimose abbiano almeno l’80% dei glomeruli di colore giallo, per evitare la messa in vendita di mazzolini troppo sguarniti.

Vero, esistono standard anche per la messa in commercio dei fiori, non solo legati alle mimose, ma a tutti i fiori venduti nell’Unione Europea; gli standard sono stati stilati seguendo le linee guida di tante associazioni diverse che già operavano nel dare indicazioni in merito. Si è deciso di unificarle il più possibile per i paesi membri, la norma serve sia a proteggere le coltivazioni stesse sia a proteggere il consumatore finale da prodotti non sufficientemente all’altezza. Uno dei documenti che cerca di spiegare bene la questione lo trovate qui, non è proprio corto, la Polidori non l’ha sicuramente letto, ma è interessante se avete voglia di approfondire.

Le viti “particolari” e gli elettrodomestici pericolosi

E val la pena anche conoscere la ragione per cui, se si rompe un elettrodomestico, è impossibile trovare sul mercato viti uguali a quelle dell’attrezzo originario: la Ue ha imposto stringenti regole di sicurezza su tutto ciò che ha un voltaggio 220 di corrente – quindi tritatutto, ferri da stiro, frullatori, phon – considerato «pericoloso».

Cara Polidori, ti hanno dato una delle prime pagine di un quotidiano nazionale, ma forse non meritavi neppure l’ultima di Lercio, più vado avanti a leggere quanto riporti più mi domando: ma è una giornalista o è stata pagata da qualche partito antieuropeista per fare campagna elettorale? Resteremo col dubbio.

La normative sulle viti particolari che sarebbero introvabili onestamente non la trovo, se non una direttiva legata alle importazioni di viti dalla Cina e Malasya, direttiva emanata per tutelare il nostro mercato. Ma ho probabilmente capito da dove deriva il mito delle viti introvabili, REPORT, una puntata del 2001, 15 anni fa.  Gentismo d’altri tempi, la fonte delle “norme europee” è un dipendente di un negozio di elettrodomestici, e dire che già nel 2001 Internet esisteva e l’Unione aveva un sito ben fatto.

L’intervistato evidenzia comunque la questione “della 220” e del fatto che queste viti siano state decise dall’Unione Europea per questioni di sicurezza, in modo che nessuno possa ravanare con facilità nell’elettrodomestico. Subito dopo si scopre che le viti (secondo un ferramenta) siano introvabili, ma per svitarle lui gli attrezzi li vende.

Ma la parte più importante (che evidentemente la Polidori non si ricorda più dopo tanti anni dalla messa in onda del servizio) è quando viene chiesta conferma ai responsabili dei controlli e verifiche per conto del Ministero dell’Industria.  La risposta viene da un dirigente del CESVIT (uno dei laboratori che, per concessione dello stesso Ministero, effettua controlli e test di sicurezza e autorizza l’uso della marcatura), Alessandro Facchini:

REPORT: Per poter dire che il prodotto e’ sicuro, per usare la marcatura ce sono obbligati ad usare viti che non si possono svitare?
Alessandro Facchini: No, ciascun produttore puo’ utilizzare tutti i componenti che ritiene piu’ consoni alla sua produzione.

La norma  che parla degli “elettrodomestici pericolosi”  invece non è altro che la normativa stessa che stabilisce la concessione del marchio Œ  e di altri marchi di qualità come IMQ…


Ve lo ricordate vero? Ecco come spiega la responsabile del servizio clienti TermoZeta:

REPORT: Perche’ costruite elettrodomestici con viti che non si possono svitare?
Daniela Franzosi: Responsabile Servizio Clienti Termozeta
Sono le norme di sicurezza che obbligano ad usare determinati tipi di chiusura negli apparecchi.
REPORT: Non ci risulta che per le norme di sicurezza dovete per forza usare queste viti?
Daniela Franzosi: “Certo pero’ queste leggi vengono invece applicate e richieste dagli istituti europei di qualita’ IMQ, VDE, KEMA, chiedono sui prodotti un livello di sicurezza piu’ avanzato, per questo noi fabbricanti preferiamo ispirarci allo standard qualitativo richiesto da questi enti.

Lamentarsene mi sembra eccessivo. È uno dei capisaldi dei controlli sulle merci importate e commercializzate, non ha nulla a che vedere con viti e bulloni ma con  norme di sicurezza che ci permettono di non avere  telefoni che esplodono in tasca e caricabatterie che prendono fuoco. O comunque di averne meno di quanti ce ne sarebbero senza questi controlli. Ovvio che tra le norme di sicurezza c’è quella di evitare di lasciare che il cliente finale possa metterci le mani sopra con facilità. La garanzia dura due anni, ma se dopo 4 muori fulminato in molti casi si può ancora fare causa alla ditta produttrice, se il difetto è di fabbricazione, ma ovviamente se ci hai messo le mani tu la colpa non è loro se ti sei fritto, no? Ovvio che da produttore anche io cerchi di renderti più difficile l’accesso no?
Qui su Butac a suo tempo vi avevamo già spiegato per bene l‘ultima normativa che invece tutela dai consumi energetici esagerati, se avete voglia di approfondire.  Ad oggi gli elettrodomestici andati fuori legge sono pochissimi e tutti perché mangiacorrente senza motivo. Nessuno ha scelto di bandire dall’Unione prodotti validi, ma solo d’introdurre regole che limitino i consumi energetici, non la definirei legge assurda, ma cercare di risparmiare e salvaguardare l’ambiente per i nostri figli e nipoti.

Le banane, le albicocche, i piselli e i cetrioli

…bisogna sapere che non possono (potrebbero) entrare in commercio banane lunghe meno di 14 cm

960ec162cc044546c86d703a8be71b61Vero, ma bisognerebbe anche sapere che le banane commestibili che si vendono in Europa sono della qualità Cavendish, la cui misura è normalmente lievemente superiore ai 15 centimetri. La maggioranza delle banane sono importate dall’Africa e dall’America latina, aver scelto dimensioni e caratteristiche per l’importazione è importante, così da avere un mercato comune con poche differenze e ridurre lo spreco (immenso) che si aveva prima, quando il controllo non veniva fatto e tanti frutti andavano buttati perché non rispettavano indici qualitativi. Le banane di altre qualità che includono le nane che a volte vediamo nei supermercati sono autorizzate, le misure minime sono imposte solo per la Cavendish (la storia invece sulla curvatura accettabile è una bufala antieuroipeista che circola da anni).

…albicocche con diametro inferiore ai 3 cm

È davvero un peccato che fare verifica dei fatti sia così poco di moda, perché bastava andare sul sito dell’Unione Europea per scoprire che:

Products no longer covered by specific standards

Apricots, artichokes, asparagus, aubergines, avocados, beans, Brussels sprouts, carrots, cauliflower, cherries, courgettes, cucumbers, cultivated mushrooms, garlic, hazelnuts in shell, headed cabbages, leeks, melons, onions, peas, plums, ribbed celery, spinach, walnuts in shell, watermelons and chicory.

Quindi albicocche, fagiolini, cetrioli e piselli non hanno più alcuno standard da rispettare specifico se vengono da paesi dell’Unione o da paesi che hanno l’autorizzazione per l’importazione in territorio europeo.

Le vongole

Per finire con le vongole che devono avere un diametro minimo di 2,5 cm

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Il fondatore di Butac che cerca di circuire innocenti vongole troppo piccole per essere mangiate.

Di queste vi avevo già parlato, ma giusto nei giorni scorsi mi è stata segnalata una cosa curiosa. Il DPR 1639 del 1968 istituiva la dimensione minima per le vongole a 2,5 centimetri, ripeto DPR ITALIANO del 1968. Qualche anno prima che l’Unione Europea iniziasse a legiferare alcunché. Strano, non trovate?

I prodotti alimentari di cui è vietata la commercializzazione

L’articolo della Polidori conclude con una carrellata di prodotti italiani che per questioni igenico-sanitarie hanno subito il divieto di commercializzazione. Peccato che anche su questo i dati che ci fornisce siano molto lacunosi:

…il casu marzu, formaggio pecorino (sardo) colonizzato dalle larve della mosca casearia. C’è il sospetto che mangiarlo sia dannoso per la salute, ma non è vero perché – dicono gli esperti – le uova della mosca casearia, potenzialmente nociva, non possono sopravvivere nello stomaco e quindi non possono riprodursi. Eppure per la Ue è potenzialmente pericoloso, dunque ne ha vietata la commercializzazione.

Peccato che eviti di spiegarci che per proteggere questi prodotti siano nati elenchi nazionali fatti ad hoc, in Italia abbiamo il PAT: prodotti agroalimentari tradizionali, che serve proprio a questo. Come spiega Wikipedia:

L’agricoltura italiana ha dovuto affrontare lo scenario della politica agricola dell’Unione europea partendo da condizioni nettamente svantaggiate. L’agricoltura moderna, estremamente indirizzata verso la meccanizzazione, richiede estensioni di terreno pianeggiante che in Italia difettano, sia per la configurazione naturale orografica, sia per l’antropizzazione spinta del territorio. Si uniscono a queste cause molti mali endemici dell’agricoltura italiana.

Per reagire a questa situazione il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha deciso di puntare nettamente su settori di nicchia, valorizzando i prodotti tradizionali in cui prodotti agricoli o dell’allevamento venivano lavorati secondo antiche ricette. il requisito per essere riconosciuti come Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) è quello di essere:

« ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni »

Come a sua volta sono protetti i prodotti che ricadono nei marchi DOP e IGP.

Il PAT in realtà non è nulla di conclusivo, visto che il Ministero ha poi dato ampi poteri alle regioni per decidere cosa permettere e come. Quindi se il vostro prodotto tradizionale non si trova più nei mercatini della vostra regione la colpa non è dell’Unione Europea ma degli amministratori della vostra zona di appartenenza.

Certo che per commercializzare il casu marzu al di fuori del nostro paese ci sono difficoltà, ma non ne è vietata la vendita in Italia, a patto che si segua quanto dichiarato quando è stato inserito il prodotto nell’elenco PAT. Ma per curiosità, credete veramente che si vendessero forme di casu marzu (ottimo sia chiaro) fuori da confini italiani fino a quindici anni fa? Forse per qualche appassionato di formaggi, ma non credo vendesse come un parmigiano o un grana padano (che invece, purtroppo, sono imitati ovunque con nomi simili).

Non credo serva aggiungere altro, sicuramente ci sarebbero ancora tantissimi casi di disinformazione antieuropeista da trattare, dato che è uno degli argomenti che suscita più tifoseria da stadio tra gli italiani “informati”. Spero di esser stato esauriente con le fonti, e di aver aiutato tanti di voi a fare luce su alcune dei più classici casi di disinformazione  che circolano in merito.

maicolengel at butac.it
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