Il DDL Zan, tra bufale e realtà [Vol. 4]

Il nostro ultimo articolo di approfondimento (per ora...)

È passata la giornata contro l’omobitransfobia, ma i diritti restano sempre attuali. Concludiamo quindi la nostra approfondita analisi del DDL Zan, stavolta rispondendo ad alcuni dei più popolari e importanti dubbi riguardo all’identità di genere, i diritti delle donne e i motivi per cui non si vuole modificare il DDL né accettare la proposta della Lega.

Le altre parti di questo nostro speciale:


Cos’è l’identità di genere?

Secondo le femministe radicali, per punire la transfobia basterebbe usare nel DDL Zan il termine “transessualità”, così da tutelare le persone trans senza attaccare l’identità delle donne e i loro diritti. Ma è davvero così?

Ripartiamo dai concetti: l’identità di genere consiste nel genere in cui la persona si identifica. Per quasi tutti, questo corrisponde al sesso di nascita (si parla di persona cisgenere: al di qua del genere). Per le persone transgenere (al di là del genere) invece no: loro infatti sentono intimamente di non appartenere, in tutto o in parte, al genere relativo al proprio sesso.

Si parla quindi di “identità di genere” per poter definire questa relazione dissonante tra sesso biologico e genere percepito. Una persona di un certo sesso potrebbe identificarsi nel genere opposto (si parla di MtF – Male to Female – chi da uomo si percepisce donna, o, viceversa di FtM – Female to Male) ma potrebbe anche non identificarsi in alcuno dei due generi (maschile, femminile) o farlo in entrambi, magari però non allo stesso tempo. È un po’ complicato, esistono tante sfumature, ognuna con un suo nome (avrete certo sentito parlare di persone agender, non-binarie o gender-fluid). Per facilità e completezza, tutte queste sfumature sono raccolte nella definizione “ombrello” di transgenerismo, cioè il fatto di essere transgenere (se masticate l’inglese, qui un articolo davvero completo).

Quando si parla di transessualità, invece, ci si riferisce solo ad una porzione del mondo trans: coloro, tra quelli che si rispecchiano nel sesso opposto, che hanno effettuato una transizione di sesso secondo le procedure che abbiamo visto. Proprio per questo il DDL Zan non usa questo termine: andrebbe a tutelare solo e soltanto le persone che hanno ottenuto la rettifica di sesso, escludendo tutte le altre (inclusi, ad esempio, bambini e ragazzi per cui giustamente si aspetta prima di intervenire con farmaci o addirittura operazioni). Per capire concretamente la differenza, esaminiamo i dati del più grande e recente sondaggio dell’Agenzia europea per i Diritti Fondamentali (FRA) rivolto alle persone della comunità LGBT+, condotto nel 2019 in tutta Europa. Tra i più di 9000 rispondenti italiani, meno del 15% di coloro che si identificavano come trans erano intervenuti per far corrispondere maggiormente il proprio corpo alla propria identità di genere. Il massimo si raggiunge in Germania, Olanda e Austria, dove comunque non si supera il 50%. Questo non stupisce, in quanto 1) la procedura non è così accessibile, 2) chi non si riconosce in nessun genere non ha nessun sesso verso cui fare transizione e 3) c’è chi non lo ritiene necessario, non vuole farlo o non può, magari per motivi di salute.

È evidente che, quindi, l’identità transessuale o la transessualità (termini che non esistono in nessuna legge) non sono per nulla equivalenti all’identità di genere, soprattutto in Italia. Ignorare questo fatto è a tutti gli effetti un comportamento trans-escludente, considerato anche che le persone trans e intersessuali sono mediamente le più esposte ad atti di violenza e discriminazione, incluso l’omicidio.

Come faceva notare il Servizio Studi della Camera l’identità di genere compare anche nell’ordinamento europeo. Inoltre è uno dei motivi di discriminazione individuati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come evidenzia il praticissimo (e lunghissimo) Manuale di diritto europeo della non discriminazione realizzato dalla FRA e che raccoglie il quadro legale dell’UE così come la giurisprudenza della CEDU.

Anche nell’ordinamento italiano compare già l’identità di genere, dalla Convenzione di Istanbul – che deve essere applicata senza disparità dovute, tra le altre cose, all’identità di genere – alla riforma del 2018 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975, che ha introdotto il divieto di discriminazioni anche per l’identità di genere del detenuto, così come la possibilità, per i detenuti che per essere gay o trans rischiano aggressioni o sopraffazioni, di essere assegnati ad apposite sezioni omogenee).

Anche la giurisprudenza utilizza il concetto di identità di genere: la Corte costituzionale l’ha infatti menzionato nei due recenti giudizi di legittimità riguardo l’art. 1 della legge 164, uno nel 2015 e uno nel 2017. In quest’ultima sentenza si legge:

In coerenza con quanto affermato nella sentenza richiamata [quella del 2015 NdA], va ancora una volta rilevato come l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere. Nel sistema della legge n. 164 del 1982, ciò si realizza attraverso un procedimento giudiziale che garantisce, al contempo, sia il diritto del singolo individuo, sia quelle esigenze di certezza delle relazioni giuridiche, sulle quali si fonda il rilievo dei registri anagrafici.

La sentenza, in pratica, ribadisce la realtà: l’identità di genere corrisponde al genere intimamente percepito e vissuto. La legge 164 permette quindi di far sì che questa identità venga riconosciuta dallo Stato tramite la rettifica del sesso anagrafico. Insomma, il DDL Zan non inventa nulla, anzi ribadisce ciò che la Consulta dice da anni, inserendolo in un testo di legge.

Il DDL Zan danneggia i diritti delle donne?

Le rad-fem osteggiano l’identità di genere perché, essendo un elemento percepito soggettivamente, una profonda sensazione, non c’è nessuno che possa verificarlo. Il timore è che l’identità di genere possa sostituirsi al sesso, e quindi che chiunque possa usufruire degli spazi o delle tutele femminili, senza controllo: si ipotizzano uomini che sostengono di percepirsi donne per poter avere accesso alle quote rosa, per poter accedere a spazi come bagni, docce e spogliatoi femminili con intenti violenti e molesti, per gareggiare in competizioni femminili in condizioni ovviamente di sleale vantaggio o, se in carcere, per essere trasferiti in una sezione femminile e quindi abusare delle carcerate. In quasi tutti questi casi il fatto non sussiste, in quanto, come abbiamo visto, il nostro ordinamento distingue quasi sempre per sesso, e non per genere. Le leggi che obbligano gli esercizi pubblici ad avere i bagni dicono che questi devono essere distinti per sesso. Le carceri sono divise in sezioni per donne e per uomini. L’identità di genere ha rilevanza giuridica solo e soltanto quando viene riconosciuta dal tribunale tramite la rettifica del sesso anagrafico (da cui si presume il genere), che è l’unico dato che conta nelle relazioni giuridiche (che devono essere determinate). L’identità di genere viene quindi inserita nel DDL Zan con il solo scopo di proteggere tutte le persone trans dalle violenze e dalle discriminazioni. Nulla più.

Per quanto riguarda le Olimpiadi: su Butac ne abbiamo già parlato qui e qui. In ogni caso, chi oggi partecipa alle gare femminili o maschili continuerà a farlo, con o senza DDL Zan. Le due cose sono slegate, e per le Olimpiadi decidono i Tribunali Sportivi, a livello internazionale.

Perché non si vuole modificare il DDL Zan?

Sappiamo che il Parlamento italiano è costituito da Camera e Senato. In un regime di bicameralismo perfetto come il nostro, le leggi devono essere approvate con lo stesso identico testo da Camera e Senato. Se un’aula fa qualche modifica, il testo dev’essere approvato di nuovo dall’altra. Il DDL Zan, così com’è adesso, è già stato approvato alla Camera. Manca il Senato. A causa dell’ostruzionismo della destra, tra tonnellate di audizioni ed emendamenti inutili, i tempi che ci separano dalla discussione e votazione nella plenaria del Senato si prospettano davvero lunghi. E l’approvazione, nonostante i voti teoricamente ci siano, non è così scontata. Se il testo nel frattempo venisse modificato, questo dovrebbe tornare alla Camera per essere approvato di nuovo. C’è il rischio concreto che, per l’ennesima volta, questa legge rimanga nei cassetti del Senato: alla fine della legislatura mancano meno di due anni, sempre che il governo non cada e si vada a elezioni anticipate (le probabilità sono alte).

Il testo cui siamo arrivati è già il punto di arrivo di una lunga discussione fatta alla Camera. Quasi tutte le modifiche proposte ora sono o superflue (sarà ostruzionismo?) o proprio dannose, in quanto deliberatamente andrebbero a indebolire o snaturare una legge che già di suo non è Godzilla.

Vale davvero la pena rischiare così tanto (e per tanto intendo la vita della gente che viene picchiata o uccisa, giusto per capirci)? Secondo me no, e il fatto che il Servizio studi del Senato non abbia trovato nulla da specificare o correggere nel DDL Zan conferma la mia impressione.

Perché la proposta della Lega non va bene?

La proposta presentata dalla Lega (il testo è qua) è radicalmente diversa dal DDL Zan. Prima di tutto, ha un impianto esclusivamente punitivo, senza occuparsi di difendere le vittime dopo il reato né di prevenire i crimini: come al solito, non si vuole capire (o ammettere) che le violenze non diminuiscono semplicemente minacciando le manette. Rifiutarsi di combattere l’omobitransfobia nella società, anche a partire dalla scuola, parandosi dietro lo scudo – che abbiamo dimostrato essere pretestuoso – della libertà delle opinioni, dimostra che non c’è la minima intenzione di fermare le violenze, ma solo di affossare la legge per accontentare e stimolare un elettorato che vede nei diritti degli altri una minaccia per i propri e per la moralità, e/o di mettere la propria bandierina sull’iniziativa.

Punto secondo, questa proposta modifica l’art. 61 c.p., ossia le circostanze aggravanti comuni, aggiungendovi “l’aver agito in ragione dell’origine etnica, credo religioso, nazionalità, sesso, orientamento sessuale, disabilità nonché nei confronti dei soggetti che versano nelle condizioni di cui all’articolo 90-quater del codice di procedura penale”, modificando poi altri articoli per limitare l’attenuazione della pena.

Qual è il problema? Che questa è una brutta copia dell’art 604-ter (che viene dalla legge Mancino), che esiste già ed è oggetto di modifica del DDL Zan! Per di più, per quanto riguarda i reati fondati sull’origine etnica ecc. questa legge fa proprio sovrapporre l’art. 61 con il 604-ter. Solo che il 61-bis prevede l’aumento della pena fino a un terzo, mentre il 604-ter (essendo un’aggravante speciale) fino alla metà: essendo la stessa identica aggravante, c’è pure il rischio che il giudice applichi quelle più lievi. Quindi si indebolisce anche la (sacrosanta) legge Mancino. Geniale.

Inoltre l’art. 61, nel Codice penale, è inserito semplicemente nella sezione che parla delle circostanze del reato, mentre il 604-ter è nel Titolo dei delitti contro la persona, nel Capo dei delitti contro la libertà individuale, nella Sezione dei delitti contro l’eguaglianza.

Infine, la nuova proposta esclude del tutto la tutela delle persone trans, che sono proprio le più esposte.

Capite la differenza sostanziale, non solo simbolica ma anche concreta?

Per ora la discussione avverrà congiuntamente, ma i due testi non sono stati fusi in uno solo (e il centrosinistra ha dichiarato di voler difendere il DDL Zan da questo tentativo).


Per ora è tutto, ma ovviamente torneremo a parlarne se l’evoluzione del dibattito pubblico lo renderà necessario.

Le altre parti di questo nostro speciale:

Patrick Jachini 
con la revisione di Thomas

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