La famiglia nel bosco, la legge, i social e la polarizzazione

Cerchiamo di fare chiarezza su un caso di cronaca che ha diviso in due il Paese (mentre politici e piattaforme social ci sguazzano)

Da quando è uscita la notizia della famiglia che viveva nel bosco di Palmoli, online si sono schierati due fronti: chi difende la loro scelta a priori, e chi ritiene inevitabile l’intervento degli assistenti sociali. Ne stanno parlando tutti sui social, al punto che avevo pensato di non trattare l’argomento; ma poi ho visto divisioni anche tra i tanti che ci seguono normalmente, e ho pensato fosse utile un ripasso dei fatti e della legislazione in merito.

BUTAC, come sempre, non si allinea con le tifoserie, ma con i fatti. L’ordinanza la potete leggere nella gallery a fine articolo.

E siccome la vicenda è diventata terreno di slogan, indignazioni prêt-à-porter e meme manipolatori, vale la pena rimettere ordine partendo da ciò che dice davvero la legge e da ciò che risulta dagli atti del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila.

Partiamo dall’inizio

Come riportato nell’ordinanza che trovate appunto a fine articolo, la vicenda della famiglia nel bosco comincia nel 2024, quando la famiglia, a causa di un’intossicazione da funghi, viene ricoverata in ospedale. In quell’occasione scrive il Tribunale:

La situazione descritta nella relazione del Servizio Sociale e in quelle dei Carabinieri del 23/9 e 4/10/24 manifestava indizi di preoccupante negligenza genitoriale, con particolare riguardo all’istruzione dei figli e alla vita di relazione degli stessi, conseguenti alla mancata frequentazione di istituti scolastici e all’isolamento in cui vivevano.

Era inoltre imprescindibile una relazione tecnica sulla sicurezza statica del rudere destinato ad abitazione dei minori.

Quando finalmente viene fissata una data per l’udienza il caso finisce sui giornali, che spesso ne parlano limitandosi agli incartamenti e a quanto trovato su testate locali. Poi arrivano Le Iene, che dedicano uno di quei servizi un po’ troppo emozionali in cui prendono piuttosto apertamente le difese della famiglia, e da lì comincia il dibattito pubblico tra chi si schiera a favore della loro scelta di vita e chi ritiene si debba intervenire.

Abbiamo cercato di fare un  po’ di chiarezza nel raccontare i fatti, facendoci aiutare anche dall’IA nell’analisi delle norme che regolano i diritti dei minori, come quelli relative alle abitazioni e ai doveri genitoriali.

L’educazione domiciliare (home schooling) è legale, ma non così

Partiamo da una questione che i social stanno fraintendendo in massa: in Italia non esiste l’obbligo di frequentare la scuola, esiste l’obbligo di istruzione. L’istruzione domiciliare (home schooling) è prevista dalla legge grazie all’Art. 118 della Costituzione. Non è un reato, non è una “scelta contro il sistema”, non è disobbedienza civile: è un percorso possibile.

Ma ha regole molto precise, tra le quali risultano una dichiarazione annuale al dirigente scolastico, esami di idoneità a fine anno e la tracciabilità del percorso educativo. Nel caso di Palmoli, secondo l’ordinanza, l’istruzione parentale non era stata rinnovata, violando gli obblighi previsti.

Si è vero che è stato presentato un certificato per uno dei figli di abilitazione alla terza elementare ma, come riportato dall’ordinanza:

Il certificato di idoneità prodotto non risulta depositato presso il dirigente scolastico competente alla vigilanza.

L’abitazione non era una “casetta tra gli alberi”: era un immobile non agibile

Qui iniziano i problemi veri. Uno dei meme che circolano (“famiglia vive felice nel bosco, lo Stato la punisce”) si regge su un’immagine romantica. La realtà descritta dagli atti è ben diversa.

Per legge, per essere abitata una casa deve essere agibile (art. 24 TUE). Agibile significa che:

  • la struttura non deve rischiare di venirti in testa;
  • gli impianti elettrici, idrici e termici devono essere a norma e sicuri;
  • l’edificio non deve avere rischi maggiorati in caso di terremoti o incendi.

La casa non ha alcuna Segnalazione Certificata di Agibilità (SCA) e quindi non può essere ritenuta abitabile al momento. E una casa senza abitabilità non può essere considerata idonea alla vita familiare, soprattutto quando ci sono minori di mezzo. Se domani il tetto crollasse o un corto circuito facesse partire un incendio, la responsabilità ricadrebbe su chi, pur a conoscenza della situazione, non fosse intervenuto. Lo Stato questo rischio non se lo prende.

Inoltre, secondo il DM del 5 luglio 1975, una casa deve garantire salubrità, ovvero ci devono essere acqua potabile, servizi igienici funzionanti, aerazione minima, assenza umidità e muffe, e la possibilità di lavarsi, cucinare e vivere senza rischio di infezioni e malattie.

La mancanza anche solo di uno di questi elementi basta a rendere l’alloggio non idoneo. Qui mancavano praticamente tutti.

L’ordinanza del Tribunale elenca infatti la situazione:

  • acqua: assente
  • elettricità: assente
  • bagno: assente
  • riscaldamento: assente
  • condizioni igieniche: gravemente precarie
  • sicurezza statica: non garantita
  • sicurezza antincendio: assente

Questa non è più una “scelta alternativa”: queste condizioni sono una violazione delle leggi esistenti sull’agibilità. Una situazione del genere non può essere abitata, specie da minorenni.

L’episodio dei funghi: il problema non erano i funghi

Come dicevamo, il bubbone è scoppiato perché a un certo punto tutta la famiglia è finita ricoverata in ospedale per intossicazione da funghi: qualcuno dice che poteva capitare a chiunque, ed è vero, difatti l’intossicazione da funghi non è un reato, ma il problema appunto non è stato quello, bensì le condizioni – e le reazioni – dei bambini in ospedale.

Gli operatori sanitari, come riportato nell’ordinanza, rilevavano infatti che i bambini avevano comportamenti anomali per la loro età, comportamenti tali da far pensare che questo stile di vita potesse non essere quello giusto per dei minori. Si parla di carenze educative e difficoltà relazionali. Non è stata l’intossicazione a far partire la macchina istituzionale, ma quanto rilevato dopo il ricovero.

Il punto più grave: il rifiuto dei controlli sanitari

Oltre alla questione dell’alloggio, il Tribunale segnala un elemento ancora più pesante nel giudizio di allontanamento, ovvero:

il rifiuto dei genitori di consentire verifiche e trattamenti sanitari obbligatori.

Questa è la parte che, legalmente, pesa come un macigno. Perché vedete, la legge italiana tutela la salute dei minori grazie all’Art. 32 della nostra Costituzione.

Secondo l’ordinanza, i genitori hanno rifiutato sia i controlli sanitari obbligatori che le valutazioni neuropsichiatriche infantili, nonché ogni forma di verifica sulla salute dei bambini.

Racconta ANSA:

“I genitori per alcune attività non si erano resi disponibili – aggiunge Masciulli – come confermato anche da Nathan che di recente, in maniera provocatoria, aveva dichiarato pubblicamente di voler chiedere 50 mila euro per ogni bambino da sottoporre a visita medica”.

In Italia i bambini devono essere seguiti da un pediatra e devono poter accedere ai controlli sanitari obbligatori. Non è un capriccio degli assistenti sociali o del giudice: è tutela della salute, un diritto dei bambini stessi. Se ci sono segnalazioni o dubbi, il pediatra deve poter visitare i minori. Se i genitori negano questo diritto ai propri figli, la legge interviene. Ed è questo a nostro avviso il punto decisivo: il Tribunale non contesta lo stile di vita. Contesta il fatto che i bambini non fossero in condizioni di sicurezza né sanitaria né abitativa, e che i genitori abbiano fatto di tutto per non permettere agli organi competenti di verificarlo.

Vita di relazione: i bambini erano totalmente isolati

La Costituzione Italiana all’Articolo 2 tutela il diritto alla “vita di relazione”. La Convenzione ONU (Art. 15) lo ribadisce. La giurisprudenza minorile lo applica da decenni.

I tre minori non frequentavano altri bambini in alcun contesto sociale, ambienti educativi o spazi di comunità. L’isolamento a questo livello non è uno stile di vita: è un fattore di rischio documentato per lo sviluppo psicologico. Sviluppo messo per l’appunto in dubbio dai sanitari che per primi hanno avuto contatti coi bambini.

No: i bambini non sono stati “strappati via”

Lo Stato non è intervenuto “rapendo i bambini”, quel che molte bacheche social raccontano è falso: i bambini sono stati portati in una struttura protetta insieme alla loro mamma, e il papà è libero di visitarli e partecipare al percorso valutativo. Si tratta di una procedura standard in casi come questo, che viene usata in decine di casi all’anno; non si tratta di sequestro, ma di una misura temporanea di protezione.

Una cosa inoltre che forse non è chiara a tutti è che i bambini, anche quando nostri figli, non sono una nostra proprietà, hanno diritti propri che vanno tutelati, e se non lo fa la famiglia è lo Stato che deve intervenire.

Inoltre, come riportato nell’ordinanza:

Contrariamente all’impegno a collaborare dichiarato all’udienza, i genitori non hanno inteso più avere incontri e colloqui con gli assistenti sociali. È stata quindi necessaria una visita domiciliare nel corso della quale i genitori hanno impedito l’accesso all’abitazione e un contatto diretto tra gli assistenti sociali e i minori.

Cioè i genitori avevano accettato un percorso famigliare da fare con gli Assistenti, ma poi quando non erano più di fronte al giudice sono tornati sui loro passi contravvenendo a quanto era stato deliberato. Anche questo fa parte dei tanti tasselli che hanno portato alle decisioni del tribunale.

No, non c’entra nulla il confronto con i campi rom

Qualche politico italiano e tanti loro follower stanno sfruttando la notizia per avvelenare il pozzo con paragoni che non hanno ragione di esistere. Come avete visto nell’immagine di apertura circola un meme che traccia un paragone tra la “famiglia nel bosco” e le famiglie nei campi rom: si tratta di manipolazione dei fatti. Non tutti l’hanno presente ma nei campi rom i minori sono seguiti ogni giorno dai servizi sociali, che controllano la frequenza scolastica e intervengono quando ritengono che i minori siano in pericoli allontanandoli dalle famiglie. Che un campo nomade presenti situazioni di sporcizia è un dato di fatto, ma camper e roulotte dove spesso vivono hanno allacci di acqua, luce e gas. Un insediamento collettivo, anche se non ci piace, non è in alcun modo paragonabile all’isolamento di un singolo nucleo familiare con rifiuto dei controlli e condizioni abitative pericolose.

Le procedure che vengono attuate nei due casi sono diverse perché diversi sono i contesti di partenza; non capirlo significa essere di vedute decisamente ristrette.

Perché crediamo sia importante chiarire?

Questa storia non riguarda il contatto con la natura o la scelta di un modello di vita alternativo, ma quello che la Legge stabilisce nel nostro Paese per la tutela dei minori. Tutela che nel caso specifico viene meno per:

  • condizioni abitative non idonee
  • rifiuti dei controlli sanitari
  • isolamento sociale dei minori
  • irregolarità nel percorso educativo

Non si tratta di opinioni o punti di vista, ma di quello che dice appunto la Legge. Se uno di questi punti salta lo Stato è obbligato a intervenire; non farlo significherebbe violare le norme che, facendo parte di questo Paese, abbiamo accettato come parte integrante della nostra vita. Nessun giudice toglie un minore alla famiglia per un ideale alternativo. Lo fa quando i diritti  fondamentali dei bambini vengono messi a rischio.

Per capire davvero come stavano le cose sarebbe bastato limitarsi a leggere gli atti, invece che meme e opinioni.

redazione at butac punto it

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