Fenomenologia delle shitstorm

Cosa sono le shitstorm e a cosa servono? Qualche considerazione nata dalle nostre esperienze

Qualche settimana fa siamo stati oggetto, per l’ennesima volta, delle attenzioni dei follower di uno di quei “giornalisti indipendenti” di cui abbiamo parlato in più occasioni. Una delle armi con cui cercano di far perdere la voglia di parlare di loro a chi cerca di smascherare la loro disinformazione o i loro trucchi retorici, e che questi “professionisti dell’informazione alternativa” condividono con i disinformatori seriali e i guru delle sette (probabilmente grazie alle simili dinamiche che si instaurano con i loro seguaci), è quella delle shitstorm.

Shitstorm si traduce letteralmente come “tempesta di merda”, si verifica principalmente sui social media, e consiste nell’indicare ai propri seguaci un personaggio, un profilo o un contenuto su cui scatenare una serie di commenti offensivi, ingiuriosi, spesso anche minacciosi, che non hanno lo scopo di criticare o contestare con argomentazioni, bensì piuttosto quello di fiaccare lo spirito di chi ne rimane vittima, di solito per impedirgli di continuare la sua attività. (Con noi, in questo caso, cascano male: ne abbiamo subite così tante che ormai non ci fanno più né caldo né freddo, e sappiamo come bloccarle sul nascere e con meno danni possibile.)

Un tizio che sulle shitstorm ha costruito una community: il nome “Minchielangelo Coltelli” è inserito nella lista dei bersagli abituali

Creare la community

Ma queste chiamate alle armi hanno anche un altro scopo, indubbiamente ben accetto da chi la shitstorm la “chiama”. Sono infatti degli ottimi collanti per le community, fanno sentire tutti uniti nel combattere un nemico comune (non a caso, il numero uno dei principi della propaganda come già proposta da Goebbels), semplice da individuare e indicare: BUTAC, i fact-checker, un giornalista specifico, oppure i media mainstream. Se si può indicare un’intera categoria da screditare a prescindere, meglio ancora: infatti, e di nuovo non a caso, questo è il secondo principio della propaganda di Goebbels – qui potete leggere gli altri, in proporzioni variabili tutti rintracciabili nelle strategie di chi diffonde disinformazione.

In questo modo, chi è stato identificato come disinformatore non dovrà più preoccuparsi di dover confutare le argomentazioni proposte da chi lo ha così identificato, perché al solo vedere o sentire la parola “fact-checker” il suo seguace-tipo saprà già come reagire, in questo caso rifiutando in toto, senza nemmeno leggere, la verifica dei fatti. Collateralmente, la community trova una valvola di sfogo a un’aggressività da branco che, se non incanalata verso l’esterno, potrebbe anche rivolgersi prima o poi a chi l’ha stimolata: così la community viene distratta dalle incoerenze e le strategie presentate da chi la guida, e la serenità interna al gruppo è assicurata.

In questa galleria, qualche esempio di come l’aggressività viene incanalata verso nemici comuni e facilmente identificabili in bolle in cui la shitstorm è pratica abituale e condivisa:

Gli utenti abituati a questo tipo di stimolo e risposta saranno particolarmente pronti a rivolgere la stessa aggressività mostrata all’interno della bolla anche all’esterno, non appena chi è considerato punto di riferimento all’interno della community li esorterà a farlo.

Stimolo e risposta

Sappiamo che le reazioni a questo tipo di “informazione” nascono non nel nostro sistema di pensiero lento, riflessivo e dominato dal ragionamento, ma in quello veloce, istintivo, che si fa comandare da bias ed euristiche e che si attiva per primo, solitamente in reazione a stimoli che ha imparato in precedenza (per approfondire consigliamo come sempre “Pensieri lenti e veloci”, del premio Nobel Daniel Kahneman). Meglio quindi, per un disinformatore, concentrarsi sulla creazione di queste reazioni – sfruttando i bias cognitivi con semplici tecniche di comunicazione – e il loro stimolo automatico, il trigger, che viene attivato con commenti semplici, essenziali, simbolici, senza preoccuparsi di argomentare davvero. Ad esempio, a queste shitstorm può essere accompagnato un articolo in risposta, lungo e inconcludente, che nella quasi totalità dei casi non viene letto ma che i seguaci possono usare come prova inoppugnabile che “BUTAC questa volta ha toppato” o, ancora meglio, che “siete stati asfaltati” o simili formule ricorrenti.

Un esempio di shitstorm in cui viene portato ripetutamente come argomentazione un video in risposta a un nostro articolo: le argomentazioni vengono sostituite dal semplice copia e incolla di un link. In un caso come questo i contenuti del video sono del tutto irrilevanti, perché la necessità di portare argomentazioni valide è del tutto scomparsa e l’unica cosa che conta è scagliarsi contro quello che è stato indicato come il “nemico”. Tra i commenti, unica variazione in questa schermata, una delle formule più utilizzate in queste situazioni: “Tizio vi ha asfaltato”

Ma se anche l’articolo venisse letto, e il lettore non vi ritrovasse argomentazioni convincenti (ma va bene anche un video o qualsiasi altro contenuto, il risultato non cambia), il gruppo lo scoraggerebbe dall’esprimere le sue perplessità, solitamente in due modi, tipici delle “bolle social” e delle echo chamber particolarmente polarizzate: il primo è mostrando reazioni negative e di chiusura, spesso aggressive, nei confronti di chiunque diverga dal pensiero diffuso nel gruppo (un vero e proprio “pensiero unico” interno a queste bolle, altro che media mainstream). Il secondo è utilizzare modalità comunicative che facciano sentire in difetto chi non interpreta le informazioni come gli altri: frasi basiche e apparentemente insospettabili come “è chiaro che…”, “detto questo diventa ovvio che…”, “è semplice da capire” sembrano puntare il dito proprio sull’utente per il quale no, quell’articolo non è così semplice da capire, o per il quale no, non è affatto ovvia la conclusione suggerita, ma che non ritrovandosi in queste pretese “ovvietà”, convinto di essere l’unico tra i tanti che lo circondano e che sembrano davvero considerare tutto ovvio e semplice, preferirà tacere pur di rivelarsi come quello che non ha capito, omologandosi al resto del gruppo a cui ha deciso di voler appartenere.

Come reagire alla shitstorm? (secondo noi)

Mettersi a rispondere alle shitstorm non vale la pena, è una perdita di tempo e serenità, che vengono tolti ad altre attività (tra cui fare altri fact-checking!). La disinformazione non riguarda davvero l’informazione, ma la compravendita di emozioni, di qualcosa che non si può ottenere in nessun modo se non impegnandosi per ottenerlo (sempre che lo si possa davvero ottenere): la cultura, la conoscenza, la soddisfazione di aver compreso qualcosa che gli altri non hanno compreso, l’illusione confortante di aver trovato uno schema dietro al caos e di non essere in balia degli eventi. Anche nel caso che non sia abbia ben capito di cosa si tratta, anche se è incoerente e insensato, non importa: non è questo il punto, il punto sono le emozioni prodotte dalla convinzione di aver compreso qualcosa più degli altri, di essere meglio della massa, degli “altri”, di chi non appartiene al proprio gruppo, e quale sia la motivazione per sentirsi così, o se sia una motivazione valida, non ha alcuna importanza. Se qualcuno ci fornisce un metodo semplice e immediato per ottenere tutto questo, o almeno l’illusione di averlo ottenuto, al “solo” prezzo del nostro tempo, della nostra attenzione, dei nostri rapporti sociali e di qualche donazione o acquisto o abbonamento, non vi è argomentazione che possa toglierci questa convinzione, e saremo disposti a combattere con le unghie e con i denti chi si azzarda a provarci.

In questo scenario lasciare qualche commento offensivo, anche se a volte si arriva a rischiare una denuncia, sembra un prezzo davvero piccolo da pagare. In questo scenario, impiegare il proprio tempo a rispondere a una shitstorm argomentando è un classico caso di perle ai porci, perché chi va a lanciare sterco in una shitstorm non lo fa per avere informazioni corrette, non lo fa per avere risposte ai suoi dubbi, non lo fa nemmeno per avere quella verità di cui parla tanto e dietro la cui ricerca i disinformatori spesso giustificano le loro azioni e le loro raccolte fondi: si tratta di ben altro, si tratta di emozioni – di pensieri veloci, non di ragionamento. Ricordiamoci sempre che quando un uomo con uno slogan incontra un uomo con un ragionamento, l’uomo con il ragionamento è un uomo morto.

noemi at butac punto it

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