Glifosato scagionato, ma per alcuni cambia poco!
Una notizia che non vi avevo riportato nelle scorse settimane è che è uscito l’ennesimo studio sul glifosato. Studio condotto dall’EPA (l’Agenzia americana che si occupa dell’ambiente) che per l’ennesima volta riporta che non ci sono evidenze di una cancerogenicità del glifosato.
Poche testate italiane ne hanno parlato, quando invece tante sono quelle che in passato hanno cavalcato la battaglia contro il glifosato sostenendone la sua pericolosità. Ma oggi non voglio parlarvi dello studio dell’EPA, bensì di un articolo apparso il 4 febbraio 2020 su la Repubblica, dal titolo:
Tutta la verità (per favore) sul glifosato
L’articolo – curiosa coincidenza – è uscito quattro giorni dopo la pubblicazione dello studio dell’EPA. Sembra quasi intenzionale, ma non voglio essere malizioso. Nell’articolo di Repubblica si cita uno studio:
Recentemente la rivista internazionale Sustainability, di elevato valore bibliometrico, ha pubblicato una rassegna di lavori scientifici indipendenti sul glifosato, ottenuti negli ultimi venti anni. Per lavori indipendenti si intende quelli non finanziati da industrie coinvolte nella produzione industriale di agrofarmaci di sintesi. L’articolo si focalizza su due aspetti cruciali. Il primo: l’uso prolungato e massiccio di glifosato ha determinato una contaminazione globale, che non riguarda più solo il suolo, ma anche l’acqua, l’atmosfera, il cibo, alcuni oggetti di uso comune come indumenti, pannolini, garze mediche e assorbenti. Il secondo punto: l’impatto di questo composto chimico e del suo metabolita è quindi sull’intero ecosistema, con effetti documentati su batteri del terreno, insetti, in particolare sulle le api, e sugli uccelli.
Sustainabilty ha Impact Factor 2.075, in crescita da quando la testata ha aperto, ma comunque decisamente basso rispetto ad altre testate come Nature. Lo studio a cui Repubblica fa riferimento risale al 2018 e nelle conclusioni non riporta nulla di definitivo. Lo studio spiega soltanto che il glifosato lo si trova in tanti prodotti, senza che ci siano prove della sua pericolosità, e che pertanto si richiedono nuovi studi per poterla dimostrare.
Onestamente uno studio che riporta al “principio di precauzione” su un prodotto largamente usato da oltre cinquant’anni mi lascia un filo dubbioso sulla serietà di chi l’ha condotto. Ma ancor di più sulla serietà di chi lo cavalca a due anni di distanza senza riportarne le conclusioni nella maniera corretta.
Nessuno mette in dubbio che il glifosato sia usato in maniera massiccia e pertanto sia possibile trovarne tracce in tanti prodotti e nell’ambiente che ci circonda. Ma allo stesso tempo sono oltre cinquant’anni che viene usato senza che si siano riscontrati evidenti effetti collaterali. Comprendo la richiesta di più studi, non comprendo il richiamo al principio di precauzione dopo cinquant’anni e nemmeno il vago senso allarmistico dell’articolo di Repubblica su uno studio uscito due anni fa. Le cose vanno raccontate sempre tutte, con completezza, altrimenti l’etica giornalistica finisce nel gabinetto e si sta facendo solo un servizio a favore di chi vorrebbe il glifosato demonizzato anche in mancanza di studi.
Ma è evidente che esiste in Europa un folto gruppo di soggetti che da anni ha come unico scopo quello di dismettere il glifosato in favore di non ben precisate alternative, non è che anche questi hanno interessi commerciali da difendere?
Lo studio di Sustainabilty oltretutto fa un’accusa ben precisa nelle sue conclusioni, parlando di grossi interessi commerciali nel campo degli erbicidi. E qui c’è un problema: il brevetto sul glifosato è scaduto, non c’è interesse a difenderlo commercialmente parlando. Mentre invece ci sono interessi a vietarlo per poter obbligare gli agricoltori a usare altro, magari protetto da brevetto di altra azienda.
Ma è chiaro che questo tipo di approfondimento interessa poco ai giornalisti.
Cui prodest?
Negli anni su BUTAC abbiamo parlato più volte di glifosato, qui trovate tutti gli articoli in merito.
maicolengel at butac punto it
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