La cannabis light e la Cassazione

Durante la settimana scorsa più o meno tutti hanno trattato la notizia della sentenza della Cassazione che avrebbe deciso che non si può vendere la cannabis light in Italia.

Da Repubblica:

La Cassazione: è reato commercializzare i derivati della cannabis light

Sole 24 Ore:

Cannabis “light”, la Cassazione: stop alla vendita, è reato

Dal Fatto Quotidiano:

Cannabis sativa, Cassazione: legge non consente vendita dei derivati. Resina e olio illegali se hanno “efficacia drogante”

Sono tanti i media e i blog che ne hanno parlato, purtroppo molti senza prendersi il tempo necessario per approfondire la questione. Durante il weekend ho avuto tempo di leggere e documentarmi per cercare di riportarvi le cose nella maniera corretta.

La legge 242/2016 sulla Cannabis

Partiamo dall’inizio, la legge italiana si è pronunciata sulla cannabis con la legge 242/2016, che al primo articolo riporta:

La presente legge reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversita’, nonche’ come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione.

Non si tratta di una legge che regola il commercio di cannabis nei negozi che hanno aperto in Italia dal 2016 a oggi. Si tratta di una legge che si limita a spiegare in che ambiti e in che maniera è possibile coltivare determinate qualità di canapa. Quali tipi di canapa è possibile coltivare, infatti, lo si ricava dal secondo paragrafo dell’Art.1:

Questa legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varieta’ ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varieta’ delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.

Da nessuna parte nel testo della legge si fa riferimento alla libera vendita al pubblico, è un vuoto normativo. Ovvero, per capirci, non c’è divieto di vendita, ma non c’è neppure un esplicito permesso. Ed è su quel vuoto normativo che sono nati i famosi cannabis shop, quelli che oggi sono su tanti giornali, lamentandosi che stanno chiudendo (o che ci stanno pensando) per colpa della sentenza della Cassazione riportata da tanti giornali.

Cosa ha detto la Cassazione

La sentenza della Cassazione non fa altro che trattare proprio il vuoto normativo, vi riporto il testo:

«la commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/1990, le condotte di cessione, vendita e, in genere, commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

L’efficacia drogante è il punto importante di tutto il testo: in Italia abbiamo dei limiti ben precisi di concentrazione per definire la canapa con effetto drogante. Lo 0,2% di THC è considerato non drogante (anche se la letteratura scientifica in merito è carente, e in Paesi vicini a noi quel limite è stato fissato all’uno percento).

L’Unione Europea

Anche nell’Unione Europa si era partiti più in alto, con uno 0,5%, che negli anni è stato via via ridotto “per principio di precauzione”. Ma è di questi mesi la notizia che si sta tentando di ritornare a quello 0,5%.

I coltivatori che hanno piante di canapa presenti nella lista dell’UE con una concentrazione di THC tra lo 0,2% e lo 0,6% non rischiano nulla dalla sentenza della Cassazione. Come non rischiano nulla tutti quei negozi che vendono la cannabis Sativa L. con limiti di THC fino allo 0,2%, come dovrebbe essere già da prima della sentenza.

La sentenza 4920 del 2019

Anzi, se volessimo esser davvero pignoli ci sarebbe da fare riferimento alla sentenza della Cassazione del 31 gennaio 2019, la 4920, di cui vi riporto alcuni stralci:

A parere di questa Corte, dunque, sebbene la L. n. 242 del 2016 faccia riferimento alla produzione della canapa e non alla sua commercializzazione, il commercio dei prodotti dalla stessa derivanti e, in particolare, delle infiorescenze, rappresenta un corollario logico-giuridico dei contenuti della suddetta legge.
In altri termini, dalla liceità della coltivazione della cannabis, prevista dalla legge n. 242 del 2016, deriverebbe la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0,6%.

Del resto, un’interpretazione differente, secondo cui la presenza di un principio attivo sino allo 0,6% è consentita solo per i coltivatori e non anche per chi commerci i prodotti derivanti dalla cannabis, non potrebbe essere accolta, in quanto trascura che è nella natura dell’attività economica che i prodotti della “filiera agroindustriale della canapa” siano commercializzati e che, in assenza di specifici dati normativi non emergono particolari ragioni per assumere che il loro commercio al dettaglio debba incontrare limiti che non risultano posti al commercio all’ingrosso.

Quindi non lo 0,2%, ma addirittura lo 0,6% non è considerato drogante. Sempre nella stessa sentenza si fa preciso riferimento al consumo:

Della piena legittimità dell’uso della  cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite deriva che il suo consumo non costituisce illecito amministrativo ex art 75 d.P.R. n. 309/1990, a meno che non emerga che il prodotto sia stato in qualche modo alterato e che di questa condizione chi lo detenga per cederlo sia consapevole.

Concludendo

Purtroppo, lo dico pensando agli investimenti fatti, ci sono alcuni negozianti che, sulla base del comunicato della Cassazione e dei tanti pessimi servizi sui media, hanno scelto di chiudere (magari temporaneamente), preoccupati per il futuro delle loro attività. Ma in realtà, se commercializzano cannabis sativa acquistata da coltivatori regolari che hanno effettuato controlli sul quantitativo di THC, non rischiano nulla.

La cosa importante è che i fatti vengano spiegati per bene, sia dalle autorità che dai giornalisti. Anche chi è incaricato di fare i controlli va istruito a dovere, per evitare di mandare in fumo l’impegno imprenditoriale dei tanti che si sono buttati nel settore in questi ultimi anni. Ricordiamo che il commercio legale della cannabis light fu visto come un sistema per sferrare un attacco al commercio illegale della cannabis in mano alla malavita organizzata ampiamente presente nel nostro Paese.

Cosa che purtroppo finora ho visto fare a pochi.

maicolengel at butac punto it
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