Il documentario di Mazzucco e le post-verità sull’Ucraina

Partiamo da un documentario di Mazzucco per parlare di narrazioni ricorrenti che non ci convincono

C’è un video-documentario di Mazzucco che si intitola “Ucraina, l’altra verità”.

Come nel caso di altri video che cercano di spiegare e approfondire le cause e i retroscena dell’invasione del 24 febbraio, creati da youtuber che si occupano di storia, di geopolitica, di approfondimenti in genere, i numeri di visualizzazioni e interazioni sono eloquenti: messi insieme, arrivano a diversi milioni.

Sono moltissimi gli utenti che si sono affidati a Youtube per cercare di capire qualcosa su un pezzo di Europa che, in genere, conosciamo poco, imbattendosi nel migliore dei casi in qualcuno che in buona fede cerca di condensare, in un’ora, contenuti che riempiono migliaia di pagine di libri, documenti, testimonianze e analisi oggettivamente complicate. Nel peggiore dei casi invece ci si imbatte in prodotti pensati e confezionati soprattutto per andare incontro alle esigenze del proprio pubblico e non per cercare di raccontare le cose al meglio.

Il video prodotto da Mazzucco offre numerosi spunti utili ad analizzare alcune delle teorie e narrazioni, ricorrenti negli ultimi mesi, che ci convincono molto poco. Non è un plurale maiestatis, questa analisi la stiamo facendo in team.

Le premesse ambigue

La prima cosa che salta all’occhio è che questo documentario parte da premesse ambigue.

Pur di prendersi il pubblico più ampio possibile, nel chiarire il proprio intento il video vi si presenta almeno in tre vesti diversi, che si contraddicono tra loro: una prima istanza “ragionevole” vi invita a guardarlo per approfondire (leggi: le TV non vi dicono tutto), una seconda si dichiara “controinformativa”, affermando di voler “ristabilire la verità storica sui motivi del conflitto” (leggi: le TV non vi dicono la verità). Una terza si pone un obiettivo che potrebbe sembrare più moderato e ragionevole, ma che è invece il più preoccupante: “Nel mondo reale, si sa, le colpe non stanno mai da una parte sola” (leggi: scegli la verità che preferisci, è un tuo diritto).

In questo modo migliaia di persone comprensibilmente confuse (lo siamo tutti), in cerca di risposte a domande che è sacrosanto farsi, non solo approdano ad alcune teorie “alternative” ancor prima di conoscere quali sono i fatti accertati (e in questo siamo d’accordo che la TV non basta, in genere), ma si ritrovano immersi in un prodotto in cui le narrazioni e le paranoie dell’aggressore sono messe sullo stesso piano dei fatti, le teorie più stiracchiate si alternano a documenti non sempre attendibili e in cui sistematicamente – e non accade solo in questo caso, ma anche di molti altri video simili – non vengono dichiarate le fonti: elemento fondamentale per essere presi sul serio.

Ci sono cose che sappiamo e cose che non sappiamo, e alcune che probabilmente non sapremo mai. Possiamo ammettere che, anche senza volerlo, il nostro giudizio è sempre al lavoro – è inevitabile – ma il senso ultimo della post-verità è soprattutto che tra infiniti possibili giudizi e modi di raccontarsi la realtà se ne possa scegliere liberamente uno o l’altro, o più di uno, senza assumersene mai completamente la responsabilità. Se conoscete qualcuno che mente sistematicamente, avrete notato che la sua ultima difesa è “tutti mentono”. Per chi non rispetta le regole è “nessuno rispetta le regole”. Per chi è nel torto, di solito è “le colpe non stanno mai da una parte sola”.

Il mito dell’Ucraina “profondamente divisa”

Abbiamo sentito spesso descrivere la terra ucraina come un territorio piatto, militarmente complicato, geopoliticamente caratterizzato da una pianura fertile, sconfinata… È difficile però trovare qualcosa di più piatto del modo in cui viene raccontata la sua popolazione.

Queste mappe di due colori, che usano in molti, non vengono usate a caso. Se mostrate insieme, o in sequenza, vi portano automaticamente a fare correlazioni e andare su una narrazione specifica: quella di un’Ucraina “profondamente divisa”, in cui ci sono da un lato persone che parlano russo, che sono etnicamente russe, che votano partiti filorussi (e magari vorrebbero tanto essere annesse alla Russia), mentre dall’altro ci sono ucraini che parlano ucraino e che si considerano ucraini e occidentali (e che magari sono intrinsecamente nazisti, ma non tutti, per carità!), che odiano quelli dall’altra parte della cartina e che odiano la Russia.

Se poi la cartina coincide (spoiler) con le elezioni del 2004, avete vinto. Con tre immagini, bene o male, la situazione appare chiarissima: anche troppo.

Questa Ucraina immaginaria è divisa in due parti speculari ed è raccontata invariabilmente come “profondamente divisa” per ragioni etniche, linguistiche, storiche e geografiche. Non è del tutto falso, ma, a vederla così, verrebbe da pensare che le cose vadano insieme: geografia, etnia, lingua, orientamento politico. Se fosse così intrinsecamente divisa in due colori (e non è da escludere che qualcuno al Cremlino, a furia di dirselo, ci abbia veramente creduto) le truppe russe sarebbero entrate nella metà della mappa con il colore giusto in una pioggia di fiori e tra gli applausi. Invece non è andata così. Moltissimi soldati russi, però, credevano veramente che sarebbe andata così. Perché?

Questa narrazione del “Paese fortemente diviso” piace moltissimo a Mr. Putin: ricordiamoci sempre che è il suo staff a decidere di cosa si parla e di come se ne parla sulle TV di Stato. Si è cercato quindi di vendere, non solo ai russi e ai russofoni – ricordiamoci anche che le TV di Stato sono la prima fonte di informazione se la nostra lingua è unicamente il russo – ma anche al resto del mondo, la convinzione che l’est del Paese stesse fondamentalmente dalla parte di Putin. L’idea ha preso piede anche in un occidente poco informato e fino a ieri poco interessato.

Se chiediamo agli ucraini, non è difficile verificarlo, scopriamo facilmente che la lingua, l’etnia e l’orientamento politico non sono correlati. Non in questa misura. Dovremmo anche scindere il concetto un po’ generico di cosa significhi essere “filorusso”: un conto è votare per un partito che vuole essere legato alla Russia, un altro paio di maniche è auspicare un’eventuale annessione,  con tutto quello che comporta.

Tutte le fonti ci raccontano di un Paese in cui la maggior parte delle persone parla correntemente almeno due lingue, passando da una all’altra anche a prescindere dalla lingua in cui gli si rivolge la parola, in cui le due lingue vengono alternate in base al contesto o anche a cosa si vuole dire. Il mix di culture, etnie e confessioni religiose, similmente, è visto generalmente come una ricchezza (sostantivo amabile, soprattutto in uno dei Paesi più poveri in Europa).

Sarebbe un errore molto grave dedurre (come queste mappe suggeriscono, soprattutto se vengono messe in correlazione), che le cose siano polarizzate con tale nettezza. Lingua, etnia e orientamento politico non necessariamente si sovrappongono:

Sulla base dei dati dell’Istituto Internazionale di Sociologia di Kyiv, il 17% della popolazione ucraina è etnicamente russo, di questi solo il 5% si considera “esclusivamente” russo: il resto si identifica come sia russo che ucraino. Anche quelli che si considerano esclusivamente russi spesso si sono opposti alle interferenze russe nella politica ucraina, rifiutandosi di essere associati con il regime di Putin.
(Plokhy, The GATES of Europe, Penguin Books, 2016)

Ma veniamo alle mappe.

La prima mappa, quella con la linea netta, è comparsa in rete il 5 marzo 2014 (in piena crisi della Crimea) su una pagina Wikipedia, con il titolo in spagnolo “situación etnolingüística de Ucraina”. Poi è sparita da lì ma è andata avanti a girare sul web. Non sappiamo da dove arrivi e chi sia l’autore, ma è decisamente poco affidabile, anche solo perché mette insieme etnia e lingua senza spiegarci come e perché.

La seconda mappa, quella “con le macchie”, compare il 2 gennaio 2011 su un forum. Benché ci sia scritto che è una mappa dell’Università di Lingue di Kyiv del 2009, non si trova alcun articolo correlato. C’è scritto che è una mappa delle lingue “parlate a casa” dagli ucraini. Cosa significa?

Ci viene in aiuto un ricercatore dell’Istituto per i diritti delle minoranze Eurac, il quale sottolinea che l’ultimo censimento è del 2001 e che ci sono parecchie ragioni per prestare particolare attenzione nella lettura di questi dati.

“34% of respondents understand the term ‘native’ as referring to the language in which they think and talk freely; for 32% of those surveyed it refers to the language of the nation they belong to; for 24% it is the language of their parents; and for 9% it is the language they use most often.”

“Il 34% degli intervistati intende il termine come la lingua in cui pensa e parla con più facilità; per il 32% degli intervistati è la lingua del Paese da cui si proviene; per il 24% è la lingua dei genitori e per il 9% è la lingua che si parla più spesso.”

Se dovessimo inserire nel documentario di Mazzucco questa mappa – una scelta arbitraria quanto volete, ma valida quanto quelle fatte dall’editor del video in questione – sostituendola a quella precedente, lo stesso discorso prenderebbe pieghe inaspettate, sarebbe meno efficace, vi confonderebbe completamente le idee.

 

Il “popolo che odia”

Per quanto riguarda il rapporto con la Russia, e con i russi, la questione è molto delicata. È innegabile il ruolo che hanno le ferite storiche in questi contesti così stratificati.

Perfino la tentazione di leggere la vittoria di Zelensky alle ultime elezioni attribuendogli il merito di essere uscito da certi cliché “oppositivi”, e di avere abbandonato la ricerca atavica di un nemico, potrebbe essere completamente fuorviante: è un argomento veramente molto complesso.

Parallelamente a questa complessità, si legge sicuramente un risentimento a livello simbolico soprattutto nei confronti di quello che la Russia rappresenta: l’identità ucraina “moderna”, post-sovietica, si rappresenta a se stessa (faticosamente) soprattutto in funzione non-russa, cercando di affrancarsi dai valori che la Russia rappresenta e da un modello di sistema che viene vissuto come vecchio e non abbastanza democratico.

Questo sentimento non è così necessariamente legato all’etnia, alla lingua o alla geografia come si potrebbe credere, e nemmeno al colore politico. Difficile pensare che non sia molto più legato a fattori generazionali, varia anche molto nel tempo, in base agli eventi.

Dopo Maidan, si è passato da un 80% che dichiarava di avere attitudini positive nei confronti della Russia (a gennaio) a meno del 50% a settembre dello stesso anno. A novembre 2014 il 64% degli intervistati si diceva favorevole all’accesso all’UE (era solo il 39% nel Novembre 2013). Nel 2014 ad Aprile solo un terzo degli Ucraini si dichiarava favorevole all’entrata nella NATO, a novembre erano più della metà.
(Plokhy)

Tutto questo ha poco o niente a che vedere con il senso di appartenenza, al sentimento di “essere ucraini”, che è ancora un’altra cosa.

Il presidente Kuchma, uomo politico a dir poco controverso ma sicuramente non filo-occidentale, ha scritto un libro nel 2003 che si intitola eloquentemente “L’Ucraina non è la Russia” in cui cerca di dimostrare come le politiche russe in Ucraina non funzionino.

Ancora nel 2015, per fare un esempio, il 58% degli intervistati nella separatista Donetsk riteneva che il Donbas dovesse continuare a far parte dell’Ucraina (secondo un sondaggio della Ilko Kucheriv Democratic Initiatives Foundation, in cooperazione con Ukrainian Sociology Service).

C’è una cosa, direi più importante, su cui gli ucraini sembrano essere quasi tutti d’accordo, da sempre. La percezione di vivere in un Paese governato dalla corruzione e, in generale, la sfiducia nella possibilità di migliorare la situazione con il proprio voto. Parliamo del Paese con il più basso livello di fiducia nei governi.

A livello politico, lo strapotere degli oligarchi nei Paesi post-sovietici come l’Ucraina, e lo sbilanciamento nella gestione dei poteri e dei vari pesi e contro-pesi democratici, crea un tipo di democrazia che due politologi, Steven Levitsky dell’Università di Harvard e Lucan Way dell’Università di Toronto, definiscono come “autoritarismo competitivo”. Ne parla Simone Attilio Bellezza nel suo libro “Il destino dell’Ucraina. Il futuro dell’Europa”. Ci torneremo, perché oltre a essere argomento decisamente interessante, è soprattutto l’insofferenza per questo stato di empasse – e non tanto le divisioni linguistiche o etniche – a essere fondamentale per capire le rivoluzioni ucraine (Ucraina senza Kuchma, la rivoluzione arancione e quindi Maidan) e la loro composizione orizzontale, un miscuglio di etnie, classi sociali, culture politiche e minoranze diversissime tra loro, unite contro il potere, un conflitto verticale. È qualcosa di fortemente legato anche alla necessità di andare verso uno Stato di diritto e verso le istituzioni che pretendono riforme in quel senso.

A proposito invece delle differenze di cui sopra (etniche, linguistiche eccetera), nella storia recente – già dalla rivoluzione arancione – molti falsi miti creati dalla propaganda sono stati usati dai partiti per cercare di guadagnare potere, fomentando le divisioni. Da un lato si è cominciato a paventare prima la “piaga arancione” e poi l’arrivo di nazisti che sarebbero venuti a massacrare chi parla in russo, dall’altro si è cominciato a parlare di zombie a cui la propaganda russa aveva lavato il cervello, e di terroristi criminali. Ne parlava sul New York Times nel 2014 in un articolo intitolato appunto “Il mito dell’Ucraina divisa”.

A peggiorare il tutto la questione linguistica, come anche la simbologia (Bandera, le statue di Stalin, gli slogan, le canzoni) e le ferite storiche (Holodomor, Babij Yar, la diaspora Tatara, il collaborazionismo), pretesti da usare a livello politico a volte anche nel tentativo – dai risultati decisamente discutibili ma con un intento non necessariamente pessimo – di creare un’identità e un sentimento nazionalista “unificatore”. Idea sposata non solo da Poroshenko con l’imposizione della lingua unica, il cui effetto è stato disgraziato, ma anche da quasi tutti i suoi predecessori, per scopi a volte simili, a volte meno.

L’Ucraina “divisa” rischia quindi di diventare non solo un argomento su cui potremmo trovare meno conferme di quelle che ci aspettiamo, ma diventa anche un’iperstizione (detta anche profezia auto-avverante). Pensiamo a come funziona anche da noi: più ci raccontiamo che siamo divisi, più ci scopriamo divisi, e la narrazione diventa reale.

anDREAM

P.S. Come vedete in questo caso non è stato un vero e proprio debunking, soprattutto in questa parte iniziale. Nei prossimi pezzi in preparazione ci sono questioni ben più controverse, ma mi sembrava interessante approfondire questi punti iniziali. Per ora l’unico debunking che mi sento di fare è soprattutto uno: la frase corretta non è “Le colpe non stanno mai da una parte sola”, ma è “Le colpe non stanno sempre da una parte sola”. Cerchiamo di ricordarcene quando i nostri figli avranno un compagno a scuola che è scappato da un paese distrutto dalle bombe.


Qualche altro link (oltre a quelli nel testo):

“Noi chi? L’identità ucraina in vista delle presidenziali”. Articolo di Claudia Ditel alla vigilia delle ultime presidenziali da cui sarebbe emerso il presidente attuale. Le sue analisi sono sempre molto interessanti.

Un articolo di Serhy Yekelchyk su Politico: si parla di identità ucraina, e di molto altro.

Altro articolo bellissimo su Valigia Blu, sempre sull’identità ucraina e la necessità di fare i conti con la storia (grazie al gruppo di BUTAC per la segnalazione).

Un libro che è un buon memoir, racconta anche (ma non solo) i media russi e il loro stranissimo rapporto con la realtà: “Niente è vero. Tutto è possibile. Avventure nella Russia moderna” Peter Pomerantsev – Minimum Fax.

L’intramontabile “La Russia di Putin” (Anna Stepanovna Politkovskaja – ristampata recentemente da Adelphi), similmente al libro di Pomerantsev, vi può dare un’idea di cosa si intende quando parliamo di “corruzione”, e no, non è paragonabile a quello che intendiamo qui.


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