Il rapporto del Censis sulla disinformazione

Un editoriale con alcune delle nostre considerazioni sulle interessanti informazioni contenute nel 3° Rapporto del Censis sulla disinformazione in Italia

Sono in vacanza, sto facendo un un road trip e leggo le news dal Paese con un filo di ritardo. Solo oggi sono riuscito a leggere il 3° Rapporto del Censis sulla disinformazione in Italia (rapporto che mi aveva anticipato Noemi appena visto). Mi sono letto la sintesi che potete trovare qui e da blogger che si diletta di fact-checking da dieci anni ho pensato che poteste essere interessati al mio parere sul tema. Non commento il fatto che alla presentazione del rapporto i saluti istituzionali siano stati fatti da un politico che ha un tag tutto suo qui su BUTAC (e non solo).

Lasciatemi aprire con un piccolo appunto: è (almeno) dal 2017 che il Consiglio d’Europa ci spiega che usare il termine fake news è sbagliato, e che per affrontare il problema correttamente si dovrebbe parlare di information disorder. Come è possibile quindi che un organo come il Censis non si adegui e titoli il rapporto:

DISINFORMAZIONE E FAKE NEWS IN ITALIA

Un altro dei motivi per cui da anni viene sconsigliato l’utilizzo del termine “fake news” potete vederlo qua sopra.

Da nessuna parte nel testo trovo il termine information disorder o la sua traduzione italiana disturbo dell’informazione. Voi penserete: poco conta come viene chiamato il problema (e se non lo pensate voi che ci leggete abitualmente, sappiamo però che è uno degli appunti che ci viene fatto più spesso da chi non ci legge abitualmente). Ma non è così: fake news è un termine che ormai da anni viene suggerito di evitare, proprio perché ai profani della materia suona come un problema semplice da risolvere. Una “fake news” non è qualcosa di serio, è una notizia falsa facilmente identificabile come tale, e da cui quindi ci si può altrettanto facilmente difendere. Ma il problema non sono le notizie false, bensì quelle parzialmente vere, che grazie a omissioni, “frame” e stratagemmi comunicativi fanno sembrare una cosa per un’altra. E questo è un concetto basilare, da tenere sempre presente se si vuole affrontare il problema, probabilmente sarebbe quindi utile usare i termini suggeriti da chi lo studia da tanti anni, che ne facciano comprendere la complessità fin dalla sua definizione. Ma a quanto pare il Censis ha scelto di percorrere un’altra strada, quella sconsigliata: avrà le sue buone motivazioni.

In realtà nel rapporto ci sono anche informazioni interessanti, ad esempio ci viene spiegato che il 61,1% degli italiani ritiene di avere solo parzialmente le competenze necessarie per distinguere le fake news, mentre il 18,7% si sente completamente in grado di farlo. Il 20,2% non si sente affatto in grado. Peccato che quando si sia parlato del problema alla Camera dei deputati nel 2017 non ci sia stato grande interesse da parte dei rappresentanti del Miur, avranno cambiato idea oggi? Chissà.

Una cosa invece paragonabile alla scoperta dell’acqua calda è sottolineare che la comunicazione eccessiva e poco chiara sul riscaldamento globale può alimentare disinformazione, catastrofismo e negazionismo. Certo che è così, è così da anni: è sostanzialmente la definizione del termine “infodemia”. Peccato che, ad esempio, solo nel 2023 qualcuno si sia reso conto che il principale sito di informazione meteo (quello più diffuso, condiviso e sfruttato dai media generalisti/sensazionalisti) faccia meteoterrorismo da anni (se ne parlava nel 2015 ai Macchianera Awards…), perché grazie a quel modo di fare comunicazione ha fatto i grossi numeri in termini di pubblico, e poi ovviamente di soldi. E una volta che i media tradizionali – sempre a caccia di click – si sono adeguati al metodo, come in questo caso, è difficile che tornino sui propri passi. E così parliamo di un’emergenza globale come se fossimo al mercato del pesce.

Concludo con un’ultima cosa che credo faccia un po’ sorridere, il Censis evidenzia come il 58.2% degli italiani abbia l’abitudine di informarsi tramite la messaggistica istantanea, come i fact-checker spiegano – di nuovo – da anni. In contemporanea il governo ha pubblicato un DPCM per contrastare la disinformazione. DPCM in cui non si fa cenno a misure relative all’istruzione, o al rispetto di leggi già esistenti come quella sull’Abuso della credulità popolare (art. 661 del Codice Penale): no, il DPCM istituisce nuove regole piuttosto fumose per le agenzie di stampa, e l’istituzione di un Garante dell’informazione che a noi suona tanto come Ministro della Verità e ci mette tanta ansia, da contrari alla censura quali siamo, da sempre.

Il rapporto, secondo il mio personale parere, non affronta in modo adeguato il ruolo dei social media e delle piattaforme di messaggistica istantanea nella diffusione della disinformazione. Inoltre, le recenti misure del governo per contrastare la disinformazione, come il DPCM, sembrano concentrarsi più sul controllo dei media tradizionali che sull’educazione del pubblico o sul rispetto delle leggi esistenti. Mentre invece la lotta contro la disinformazione richiede un approccio che includa l’educazione, l’applicazione delle leggi e la responsabilità dei media, e purtroppo non mi pare che al momento in Italia ci si stia seriamente occupando di nessuna delle tre.

Ammetto che non mi sento di aggiungere altro, mi farebbe piacere leggere le vostre considerazioni sul rapporto del Censis ma anche sul DPCM linkato poco sopra.

maicolengel at butac punto it

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Foto di copertina di Nijwam Swargiary su Unsplash