L’alternativa al glifosato?
Intro
BUTAC da tempo cerca di fare corretta informazione scientifica sulla dibattuta questione glifosato sì/no. Dibattuta in realtà solo e unicamente perché alcune precise lobby hanno scelto di contrastarne l’uso, dato che dal punto di vista scientifico le idee sono decisamente chiare. Nel corso delle tante discussioni sul tema è venuto fuori che la proposta alternativa al glifosato potrebbe essere l’acido pelargonico. Onestamente la mia cultura scientifica si limita a saper verificare le fonti, e in un caso come questo ho ritenuto utile chiedere a chi è decisamente più esperto di quanto io potrò mai essere: Donatello Sandroni, laureato in Scienze Agrarie con dottorato di ricerca in Chimica, Biochimica ed Ecologia degli Antiparassitari, giornalista e da anni ottimo divulgatore scientifico. A lui ho chiesto un “facciamo chiarezza” sull’acido pelargonico.
Mettetevi comodi.
maicolengel
Acido pelargonico
Nel panorama fitoiatrico italiano esiste una sostanza a effetto erbicida, l’acido pelargonico, di cui nel mondo tecnico-scientifico agrario si parla per lo meno dalla metà degli anni Ottanta. Ciononostante, non ha mai avuto successo in agricoltura per una serie di criticità e limiti tecnici che approfondiremo in seguito, venendo rispolverato solo dopo il marzo 2015, quando la Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha posizionato il glifosate nel gruppo 2A, quello dei “probabili cancerogeni”, il medesimo in cui ricadono anche la carne rossa e l’acqua calda sopra i 65°C, tanto per intendersi. L’erbicida più utilizzato al mondo è finito quindi sotto pesante attacco, politico e mediatico, trovando opposizioni crescenti perfino nel settore agricolo. Peraltro, sono state e rimangono accesissime le controversie che infiammano i rapporti fra Iarc e le diverse Autorità mondiali di regolamentazione, per le quali l’erbicida non porrebbe invece alcun rischio di cancro per l’uomo.
Ciò non di meno, l’attacco al glifosate ha aperto possibili varchi commerciali per prodotti che solo tre anni fa apparivano come semplici curiosità per addetti alla ricerca nel settore agricolo. Fra questi, appunto, l’acido pelargonico, conosciuto anche con il sinonimo di acido nonanoico. Il 26 febbraio 2016 il Ministero della Salute ha infatti autorizzato l’immissione in commercio del primo diserbante oggettivamente utilizzabile per usi agricoli a base di acido pelargonico, dal nome Beloukha, distribuito in Italia dalla società belga Belchim Crop Protection. Nel 2009 erano infatti stati registrati dalla società tedesca W. Neudorff Gmbh KG alcuni preparati per uso hobbistico con il marchio Finalsan, commercializzato da Kollant, uno dei brand di riferimento nei prodotti per la gestione del verde pubblico e privato. Pur avendo in etichetta la possibilità di essere utilizzati anche su colture agrarie, la loro concentrazione di sostanza attiva era di soli 187 grammi per litro, fatto che obbligava a dosi per ettaro di 170 litri di formulato commerciale. Un aspetto che non ha mai consentito a tali formulati di affermarsi sul fronte agricolo, rimanendo relegati per lo più agli usi di privati cittadini cui serviva un prodotto col quale ripulire dalle erbacce il vialetto di casa. Beloukha presenta invece una concentrazione maggiore, cioè 680 grammi per litro, consentendo di ridurre anche le dosi per ettaro, le quali, come si vedrà, restano comunque molto alte rispetto alle soluzioni erbicide attualmente utilizzate.
Dal punto di vista chimico trattasi di un acido grasso che presenta una catena a nove atomi di carbonio. In natura si trova in alcune varietà di gerani, come per esempio il Pelargonium, da cui deriva il nome. Ma da questo punto parte anche la prima freccia di disinformazione: l’acido pelargonico che viene prodotto e utilizzato come diserbante non è affatto un prodotto naturale come si vorrebbe far credere. Avendo costi insostenibili l’estrazione della molecola dai gerani, utilizzati furbescamente da alcuni produttori per far credere sia possibile “diserbare con i fiori”, l’acido pelargonico viene in realtà prodotto industrialmente tramite processi che tagliano e cuciono altri acidi grassi a catena più lunga, come quelli che si trovano nelle comuni colture oleaginose.
Non a caso, nonostante la sua millantata “naturalità”, questa sostanza attiva non risulta inclusa nei disciplinari di produzione biologica. Un conto è infatti la molecola naturale, presente appunto nei gerani, un altro l’uso di una molecola identica, ma ottenuta da operatori chimici industriali in impianti altrettanto industriali. Sia chiaro: la differenza la vedono solo gli ideologizzati per i quali se una molecola l’ha toccata l’uomo non è più naturale. Di fatto, l’acido pelargonico ottenuto in fabbrica è chimicamente identico a quello dei gerani. Ma se ci si dà una regola, come fanno appunto i biologici, bisogna poi rispettarla. A meno ovviamente di cambiarla nel tempo.
Dal punto di vista tossicologico l’acido pelargonico non ha particolari criticità, pur dovendo essere utilizzato con cautela in quanto appunto acido, per giunta abbastanza aggressivo nei confronti dei tessuti che tocca, anche animali. In etichetta infatti riporta il pittogramma col punto esclamativo, che richiama all’attenzione, perché può essere irritante oculare e dermale. Fatto che ha comportato nelle etichette ministeriali dei formulati le indicazioni di pericolo H319 (Provoca grave irritazione oculare) e H315 (Provoca irritazione cutanea). Un po’ sgradevole nell’odore, ricorda vagamente l’ammoniaca, persiste però poco nell’ambiente, venendo degradato dalla microflora del suolo.
Contrariamente agli erbicidi comunemente impiegati, i quali agiscono su specifici enzimi delle piante infestanti, l’acido pelargonico esplica la propria azione per via fisica, sciogliendo le cere protettive che coprono le foglie e causandone la successiva disidratazione. E ciò avviene su ogni forma vegetale, come pure su muschi o licheni. In sostanza, l’acido pelargonico è un erbicida totale, come il glifosate. Non guarda cioè in faccia a nessuno: quel che tocca, secca.
La sua azione è peraltro molto veloce, al contrario di quella del prodotto che si prefigge di sostituire, ovvero proprio il glifosate. Mentre quest’ultimo inibisce la produzione di alcuni aminoacidi, necessitando quindi di alcuni giorni per esplicare la propria efficacia, l’acido pelargonico ha un’azione caustica sul fogliame, in quale secca nel volgere di un’ora. Questo ovviamente se le condizioni esterne completano il cerchio. Affinché muoiano le parti epigee, cioè le foglie delle malerbe, deve infatti esservi abbastanza caldo, almeno sopra i 25°C, in modo che la disidratazione avvenga in modo spinto e veloce. Se quindi funziona molto bene in estate, sotto un solleone agostano, con alte temperature e magari un po’ di vento, l’acido pelargonico perde colpi nei mesi primaverili e autunnali, come pure nelle giornate nuvolose. Se cioè il glifosate può uccidere le malerbe anche se impiegato di notte con pochi gradi sopra lo zero, il pelargonico ha finestre temporali e termiche molto più strette. Ulteriori ragioni che ne hanno penalizzato molto gli impieghi in passato.
Un altro punto dolente riguarda la mancata devitalizzazione delle radici. Colpendo solo le lamine fogliari, l’acido pelargonico non uccide la pianta definitivamente. Questa può quindi emettere nuova vegetazione alla prima pioggia utile. Se cioè la sua azione è violenta e velocissima, la pecca tecnica più grave è la mancanza di persistenza degli effetti. Ciò implica quindi il bisogno di applicarlo più volte a distanza di poche settimane, moltiplicando i costi. Se ciò ha poca importanza per chi debba diserbare il vialetto della propria palazzina, assume invece un’importanza notevole per un agricoltore che debba diserbare molti ettari di superficie. Anche perché i costi dei formulati a base di pelargonico sono altissimi rispetto proprio al competitor che si prefigge di sostituire, ovvero il già citato glifosate.
Da alcuni studi svolti da Agri 2000, centro di saggio bolognese, la sostituzione nei diserbi urbani del glifosate con l’acido pelargonico potrebbe infatti far lievitare i costi di 6-7 volte a carico delle municipalità che volessero gestire le infestazioni di malerbe con questi prodotti. Il pelargonico, infatti, oltre a essere molto caro di per sé, va applicato a dosi alquanto elevate, fino a 16 litri all’ettaro. Quattro-cinque volte tanto le alternative tecniche finora utilizzate. In più, per i motivi sopra esposti, va impiegato un maggior numero di volte nel corso dell’anno.
Fatto quindi salvo che l’acido pelargonico è molto costoso, non è naturale, non è atossico, né tanto meno è una novità, si deve pure osservare come anch’esso ricada nelle logiche che accomunano qualunque altro agrofarmaco, ovvero lo sfruttamento su scala industriale della molecola. In Italia, per esempio, il maggior produttore è Novamont, l’azienda dei famosi sacchetti biodegradabili. In Francia è la Jade, acquistata recentemente dalla succitata Belchim Crop Protection. Perfino Bayer, che ha appena acquistato Monsanto e quindi il glifosate, ha a catalogo per il garden un PPO (prodotto pronto all’uso) a base di acido pelargonico. In sostanza, le multinazionali della chimica hanno già intuito il business, investendo sull’acido pelargonico in attesa che il glifosate sparisca di scena. Evento che potrebbe accadere fra quattro anni, quando la molecola verrà rivalutata dalla Comunità europea. In tal caso, l’acido pelargonico potrebbe essere venduto a fiumi, aspirando a un business potenziale al cui confronto quello del glifosate diverrebbe solo un pallido ricordo.
Donatello Sandroni
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