Il paradosso Rangeloni – Parte 3: la propaganda ha un costo, l’ideologia è gratis

Tra narrazioni e comunicazione, tra premesse accettabili e conclusioni deliranti

Lo straniamento weird della narrazione della porta accanto

Una scena immaginaria. Piove a dirotto, è notte, scendi al volo dall’auto per prelevare, rientri con un balzo e al posto della tua ragazza, al volante c’è un norvegese senza sopracciglia, terrorizzato, che urla istericamente.

L’effetto è straniante perché sei passato attraverso un passaggio (la “soglia”, concetto caro a David Lynch, problematizzato magistralmente da Mark Fisher) che si affaccia a una realtà alternativa che è simile alla tua, ma che è strana perché infatti non è la tua auto, ma è quella di un altro.

Sei entrato in un luogo simile al tuo, ma non ti senti a casa.

“As this is where I’m staying
This is my home”
(Bjork, The Anchor Song, Debut – 1993)

Possiamo considerare la porta di ingresso come “narrazione” e la realtà dell’abitacolo dell’auto (o meglio ancora la destinazione di quell’auto) come “ideologia”.

L’ideologia impoverita di Giorgio Bianchi

È impossibile parlare di reporter indipendenti dal Donbass senza imbattersi in Giorgio Bianchi e straniarsi per le sue narrazioni. Talmente loquace da rendere impraticabile un debunking puntuale, è proprio lui a suggerirci un approccio ideologico. Bianchi infatti, oltre a essere un capace fotoreporter che vive e frequenta il Donbass da otto anni, è diventato un punto di riferimento per molte persone che seguono il suo canale e i suoi discorsi, spesso incentrati (troppo – e a sproposito, per la mia modesta opinione) sulla propaganda, la comunicazione e le ideologie occidentali.

“Nel momento in cui è scoppiato il conflitto, il mio canale che contava diecimila persone che mi seguivano, è arrivato a centomila (…) perché chiaramente le persone cosa fanno? Vanno a cercare di capire da chi si occupa di questo conflitto da tempo”.
Giorgio Bianchi – Napoli, 4 maggio 2022 – evento CARC (Partito dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo)

Premesse accettabili, conclusioni deliranti

Bianchi apre spesso i suoi interventi con questa premessa:

Io sono fortemente critico nei confronti dei media mainstream. Ritengo che oggi non vi sia altro spazio di libertà di informazione se non nei blog e nella controinformazione fatta via social. L’informazione mainstream è fortemente viziata dalle agende e dalla narrazione che si vuole fare intendere e da quello che Marcello Foa ha definito “il frame”. (…) Tutto ciò che è all’esterno (di questa cornice, frame) non viene divulgato o non viene raccontato.
(Giorgio Bianchi – intervista del 2022)

Molte delle narrazioni di Bianchi partono da presupposti condivisibili, proprio come il discorso di Foa sul “frame” (fenomeno studiato da tempo), che parte da presupposti più che ragionevoli: praticamente ovvi (per me, una delle letture più noiose degli ultimi decenni). Vediamo però, saltando direttamente alle conclusioni, in quale ideologia ci vuole portare questa narrazione…

“La Rivoluzione Arancione fu una rivoluzione pianificata ad arte, pianificata dai movimenti che erano legati a Soros (ma non solo), e che insieme costituivano la think tank che ha finanziato e pianificato quella rivoluzione, che era una messa in scena”.
(Marcello Foa)

Il salto è notevole, ma ci arriviamo. Deragliando dal dibattito degli ultimi decenni sulla crisi della carta stampata (meno copie vendute, meno fondi, meno inviati all’estero, meno fact-checking, troppa fretta online) e sul conseguente calo di credibilità degli apparati mediatici tradizionali troppo grandi, costosi e problematici (più clickbaiting, più superficialità, più polarizzazione e strizzate d’occhio ai propri lettori ecc…) Foa, come Bianchi e come il Giulietto Chiesa degli ultimi anni, concentrandosi sulla ricerca di un colpevole (e non sull’analisi dei vizi sistemici e sull’evoluzione dei media) approda a una conclusione tanto ideologica quanto semplicistica: in cima alla piramide c’è il “potere”.

Questa entità astratta, metempirica (non si può averne esperienza, è occulta) ma infallibile e immortale come il deep state di QAnon (togliete Soros, il cattivo diventerà immediatamente un altro), mentre muove i fili del mondo – organizzando finte rivoluzioni, sopendone altre, spostando le pedine sulla scacchiera – decide di calare dall’alto le narrazioni (e quindi le ideologie) per mascherare le proprie malefatte.

I giornalisti, consapevoli (quindi venduti) o meno (quindi completamente idioti), seguono questa agenda nell’impossibilità di proporre alternative: infatti il pubblico, zombificato, si rifiuterebbe di uscire dal frame. Il risultato è che tutti i media sono allineati e inutili a decifrare la realtà.

Questo ragionamento, che muove i passi dalle antichissime regole della gestione del potere (il nucleo condivisibile, storico e perfettamente logico del discorso), se portato all’estremo diventa completamente delirante e ci porta in una ideologia di sospetto, di accerchiamento e infine in un cinismo disilluso e impotente travestito da controcultura identitaria.

Oltre ai blogger (che ci fanno soldi) e ai controinformatori di Telegram, a chi piace tantissimo questo discorso?

A molti. È infatti una porta di ingresso perfetta per chiunque voglia manipolarvi, portarvi altrove, vendervi qualcosa o reclutarvi in una setta.

Modalità Fight Club: on

Mainstream… iperoggetto esasperante, superficiale, chiacchiericcio televisivo che orbita insieme al giornalismo da Pulitzer, all’intrattenimento trash e ai capolavori di storici, pensatori, poeti, accademici e giornalisti; un meme, uno shortcut da agitare ai propri follower ritraendo subito la mano: ci siamo capiti, diffidiamo del mainstream, non serve che ci intendiamo su cosa sia, visto che non lo sappiamo definire.

Anche Fight Club è mainstream, e anche Bianchi cita uno scrittore mainstream: Baricco! Poteva andarci peggio:

Baricco in una celebre lettura affermò che depurando la realtà dai fatti, ciò che resta è storytelling.
Nel mondo occidentale è rimasto solo questo.
Oramai è tutto storytelling, la sostanza è caduta in secondo piano. Vai al ristorante e il cameriere ti fa lo storytelling del piatto; compri un fuoristrada per girare in città, perché la pubblicità ti ha detto che si adatta al tuo carattere indomito; giri con la maschera all’aperto, perché le istituzioni ti hanno convinto che così sei responsabile. Ogni azione è dettata dall’emotività, dal desiderio di accedere a pieno titolo all’immaginario che viene di volta in volta proposto. L’acquisto di un bene, ma anche delle idee, oramai propagandate e vendute con le stesse tecniche con le quali ti rifilano a 300 euro un paio di jeans stracciati fatti in Cina, avvengono con le stesse modalità, attraverso i medesimi canali. Il design e la moda hanno sostituito la sostanza, anche per ciò che dovrebbe riguardare la coscienza. Oramai le idee si indossano a seconda della tendenza del momento.

Il sapore ideologico della retorica di Tyler Durden (“Se possiedi le cose, finisce che le cose ti posseggono”) ci piace da morire perché ci porta in una verità profonda facendocela sembrare assolutamente rivoluzionaria (stiamo aprendo gli occhi, scegliamo la pillola rossa noi, mica come voi… anche se ce lo diceva pure nostra nonna che i jeans strappati erano un investimento discutibile). È molto più straniante e avventuroso rimanere nel primo atto di Fight Club, fingendo di ignorare il finale del film (o, peggio, del libro): la disillusione di scoprire di essere finiti in una nuova ideologia, ancora più delirante e insensata della precedente. Beffarda conclusione, quindi perfetta.

Ideologie occidentali

Il filosofo europeo Slavoj Žižek offre bellissimi esempi per mostrare quanto siamo circondati dalla propaganda e intrisi di ideologie. Non è un mistero per chi studia comunicazione a qualunque livello il fatto che Hollywood sia stato un veicolo straordinario per propagandare l’ideologia occidentale e i suoi valori. Cultura di massa e controcultura, pop e punk, tutto (e il suo contrario) è passato attraverso gli schermi della globalizzazione, compresi i nostri valori condivisi, nel bene e nel male. Ma Žižek va più a fondo: l’ideologia resta perfettamente funzionante anche quando ce ne prendiamo gioco, quando non ci crediamo nemmeno e anche quando ci chiamiamo fuori (sono un ateo cristiano – dice, ateo in quanto cristiano).

Ancora in modalità “fight club”, dopo che ha frainteso completamente Baricco, Bianchi ci offre un esempio perfetto di questa impossibilità a chiamarsi fuori, di come, affrancandosi dal velo di Maya, si può fare serenamente una propaganda degna dei tempi dell’Istituto Luce:

Per questo motivo questa non è una guerra tra stati, ma un conflitto tra realtà e storytelling, tra la concretezza dell’acciaio delle armi e la fumosità e l’evanescenza della narrazione. È una lotta tra l’efficacia dei mezzi militari e quella della propaganda. Riusciranno le sanzioni prodotte dalla propaganda ad abbattere la Russia prima che le sue armi facciano capitolare Kiev e che gli effetti della crisi comincino a falcidiare le popolazioni europee?
La risposta è no, e lo abbiamo visto in Siria.
La realtà è che il mondo si regge sui rapporti di forza.
Lo storytelling anche questa volta perderà, e alla fine tutti dovranno tornare alla realtà.
E quando tutti torneranno alla realtà, sarà guerra totale.

Al di là della singolarità di paradossi che vanno a collidere uno con l’altro in questo discorso (la Russia di oggi raccontata come anti-capitalista e anti-propaganda… il ruolo dello storytelling ridotto a mero cosmetico superficiale anti-realtà, ma anche il narcisismo sfrenato che trapela, che è occidentale fino all’osso) interessante sarebbe ribaltare queste stesse conclusioni (ma non è idea mia, è proprio materia di dibattito da migliaia di anni): se togliamo le ideologie, se togliamo le aspirazioni e i sogni degli esseri umani per un futuro migliore, più giusto, più armonico e più vivibile per le generazioni a venire, cosa resta?

Resta solo la concretezza dell’acciaio e delle armi.

Ci piace?

Come Bianchi sia arrivato in questa stranissima e ambigua ideologia, non lo sapremo mai. Questa concretezza di armi e acciaio, però, è esattamente quel che trova quando arriva a Kyiv nel febbraio del 2014.

Maidan ideologica

Maidan è un fenomeno che studieremo probabilmente ancora per i secoli a venire, un’esperienza inedita, epocale, ed è un fenomeno iniziato il 24 novembre dell’anno prima.

In questi giorni (il 16 o il 18 febbraio 2014, ci sono due versioni) in cui arriva Giorgio, è già successo di tutto, sia sul piano fattuale (scontri, rappresaglie, bastonate, lacrimogeni, feriti, sparatorie, morti, rapimenti, torture, infiltrazioni di provocatori) che sul piano simbolico (eroi, martiri, famiglie, preti, fuoco, fumo, bandiere, narrazioni, ideologie, una manifestazione pacifica che si trasforma, in tre mesi, in lotta armata e guerra civile).

In questo contesto, Bianchi arriva in aeroporto e si rende conto che la vita, a Kyiv, scorre normalmente, questo lo insospettisce (sempre meglio insospettirsi, nel dubbio) perché si aspettava “dai media mainstream” di trovare fuoco e fiamme in tutta la città.

I media mainstream:

“Attorno a Maidan, lembo di Kiev che si è già liberato, grande appena un pugno di strade, la città nuota tranquilla, indifferente”.
Kiev, 31 gennaio 2014 – Domenico Quirico su La Stampa.

Nel giro di pochissimo Giorgio, arrivato per scattare foto, finisce nel bel mezzo di quello che verrà chiamato il massacro di Maidan (18-20 febbraio, centinaia di morti), un ragazzo gli muore praticamente addosso sotto al tiro dei tristemente noti cecchini dell’hotel Ukraina. In un’esperienza che traumatizzerebbe anche John Rambo, Bianchi ammette che sia avvenuto dentro di lui uno “switch”. Direi che è più che comprensibile e umano e anche solo per questo gli vogliamo bene, davvero.

Purtroppo, da qui in poi, Giorgio Bianchi sposerà le stesse identiche tesi della propaganda russa: Maidan è stato un colpo di stato di stampo neonazista appoggiato dall’Occidente e organizzato dalla CIA, fine della questione, non c’è spazio per discutere di questo.

Questo è incredibilmente triste e lo è in special modo se, parlando proprio del momento epocale da cui nasce tutto ciò che sta accadendo intorno a noi oggi, togliamo il mix surreale di pulsioni ideologiche – estremamente diverse tra loro, ma in qualche modo convergenti e dirompenti – che hanno portato centinaia di migliaia di persone, che avevano tutto da perdere nel mettere in discussione il proprio futuro, a esporre a grossi rischi se stessi e i propri cari, ad accamparsi in una piazza a temperature sottozero non per giorni, non per settimane, ma per quasi quattro mesi. Se togliamo i loro sentimenti, cosa resta? Resta solo la fotografia della violenza di quel massacro, incomprensibile, confusa, spietata, ma manca una parte fondamentale, che esce da questa “inquadratura”.

Per cercare di capire qualcosa di Maidan è utile leggere le testimonianze di chi ha vissuto l’intera esperienza, ascolando le voci di persone normalissime che da un giorno all’altro si sono ritrovate in una rivoluzione dicendosi qualcosa del tipo “non si torna più indietro, ormai”. Black Square di Sophie Pinkham, The Ukrainian Night di Marci Shore sono solo due dei tanti libri che provano a raccontare i sentimenti e le aspirazioni di queste persone. La prima è una scrittrice e giornalista che negli anni precedenti a Maidan si occupava, in Ucraina, di tossicodipendenze e di trattamenti per l’HIV. La seconda è una professoressa di Storia del pensiero moderno europeo a Yale.

Esistono inoltre resoconti di giornalisti, storici, testimoni e analisti da tutto il mondo. L’unica cosa chiara a chiunque li abbia letti, anche solo in parte, è che non si può assolutamente ridurre quegli eventi a una montatura, un colpo di stato creato a tavolino da qualche deep state occidentale (cosa su cui insiste la propaganda russa, praticamente dal giorno seguente, fino a oggi). Ci sono ovviamente ombre e luci, interessi incrociati, episodi su cui è auspicabile che qualcuno faccia chiarezza, c’è tutta la simbologia ultra-nazionalista (ovvio) che va capita a fondo, prima di chiudere il discorso, ma negare che Maidan sia stata una rivoluzione significa dare uno schiaffo in faccia alla realtà e perdersi qualcosa che dovrebbe invece interessarci moltissimo, soprattutto se ci consideriamo europei.

Bianchi invece, dopo due giorni di “switch”, aveva già capito tutto (colpo di stato, c’è dietro la CIA) e presto sarebbe andato a vivere a Donetsk, con i separatisti, come hanno fatto Rangeloni e molti altri.

Lo schema interpretativo gratis

Se centinaia di migliaia di persone seguono Giorgio Bianchi, però, non è grazie alle sue foto (sarebbe bello, invece), o al suo look convincente da outsider che piace tanto a certe signore per bene un po’ new age, ma è grazie al fatto che – consapevole o meno – ha una presa manipolatoria notevolissima. Il carattere forse più distintivo è la faciltà nel cambiare registro continuamente, da vittima a esperto autoritario, da modesto osservatore ad arringatore di folle:

“Noi stiamo attingendo… quello che viene detto qui in un’ora o in mezz’ora, è una sintesi di un lavoro che dura anni, che viene messo gratuitamente a disposizione dello spettatore per dargli uno schema interpretativo della realtà.
(…) Quando hai capito questo, quando accadono gli eventi è un attimo che succede una cosa e “TAC” la collochi…
Mi dicono ”eh ma tu avevi capito tutto della pandemia” ma io non è che sono un genio, sono una persona modesta, ho una cultura modesta, il problema è avere lo schema interpretativo:
Capaci… Falcone e Borsellino sono stati fatti fuori perché indagavano il terzo livello… le menti raffinatissime… chi sono? Sono sempre quelli che stanno al di sopra, che utilizzano i
neonazisti ucraini, i jihadisti in medio oriente, la mafia…
La NATO è una organizzazione criminale che si avvale di criminali per fare il lavoro sporco, e mandano in giro questi personaggi opachi, grotteschi che non sanno niente e non hanno capito niente… [si riferisce – credo – ai funzionari della UE o delle Nazioni Unite, che non capiscono niente e non seguono Bianchi su Visione TV, evidentemente ndA].
Il potere vero, il potere occulto sono le cinque intelligence più potenti del pianeta.

Dal suo switch in poi, Bianchi sarà impossibilitato a tornare dall’altro lato: ormai bollato come filorusso, persona non gradita a Kyiv, non avrà altra casa in Ucraina se non a Donetsk.

Il Donbass è stato una calamita per persone di ogni tipo in questi anni: nonostante le bombe ha attirato dall’estero estremisti di destra, cantanti lirici, propagandisti, miliziani, affaristi, latitanti, occidentali delusi in cerca di una seconda vita o di una vita “più vera”, o di una ideologia diversa, un delirio antropologico tutto da approfondire. Ma il Donbass è stato anche e soprattutto una calamita per le narrazioni, in cui a fianco di morti reali e tangibili convivono storie di morti, stragi e genocidi immaginari, miti e leggende propagati senza tregua dalla propaganda russa e dalle sue TV. L’intero conflitto “a bassa intensità” di questi ultimi otto anni, completamente insensato, si basa prevalentemente su due sistemi di narrazioni che stridono e fanno scintille (togliete la propaganda e l’intervento russo: niente guerra). Prima di decidere di sentirvi “ideologicamente a casa” quando ascoltate un reporter indipendente dal Donbass, considerate sempre che tra filorussi si ragiona da filorussi, non c’è da scherzare con le ideologie. Saranno anche gratis, ma non sempre si può tornare indietro.

anDREAM

Questo articolo è l’ultimo di una serie dedicata ai “reporter indipendenti in Donbass. Trovate qui la prima parte e qui la seconda.


Qualche link:

  • Mark Fisher – The weird and the Eerie – Minimum Fax (per i discorsi su David Lynch e molto altro. Un capolavoro).
  • Slavoj Žižek – Guida perversa all’ideologia – e – Guida perversa al cinema – sono due film attualmente disponibili su Amazon Prime, nonostante il titolo, entrambi si occupano di ideologia.
  • Il web è inoltre pieno di lectures di Žižek, di suoi masterclass (qui passa da Gangnam a Hitler a Kung Fu Panda e allo pseudo-buddismo) appassionanti sono anche i dibattiti in cui ragiona con altri “avversari”.
  • Domenico Quirico – Da Maidan a Sebastopoli – una raccolta di articoli su Maidan pubblicati da La Stampa (la versione digitale è molto conveniente).
  • Sophie Pinkham – Black Square – Adventures in post-soviet Ukraine – è disponibile solo in inglese ma ne vale la pena, è un racconto sugli outsiders, punk post-sovietico, tossicodipendenze, HIV, volontariato e ricerca new age. E poi Maidan. Raccontato sapientemente. Segnalato dal New York Times.
  • Serhii Plokhy – The Gates Of Europe: A History of Ukraine – racconta l’Ucraina da Erodoto al Donbas.
  • Marci Shore – The Ukranian Night: An Intimate History of Revolution – è una storia raccontata da una studiosa del pensiero, un punto di vista agli antipodi della narrazione MAINSTREAM!
  • Simone Attilio Bellezza – Ucraina: Insorgere per la Democrazia – ripercorre la storia moderna dalla fine dell’Unione Sovietica alla rivoluzione arancione, a Maidan, fino al Donbas.

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