Odiamo dire “l’avevamo detto”…

La nostra serena analisi dello scenario dipinto da uno studio, appena pubblicato su Science, che quantifica l'impatto della disinformazione antivaccinista su Facebook

…ma a volte tocca farlo.

Il 31 maggio 2024 su Science è stata pubblicata una ricerca dal titolo:

Quantifying the impact of misinformation and vaccine-skeptical content on Facebook

Si tratta di una delle analisi che vorremmo vedere anche nel nostro Paese, magari da parte di una delle tante università che si vantano di quanta ricerca fanno – per poi pubblicare studi pseudoscientifici a sostegno di prodotti medicali di zero efficacia sanitaria (e purtroppo, se linkiamo questi studi, ci becchiamo l’ennesima denuncia).

Ma vediamo più nel dettaglio lo studio pubblicato da Science. Gli autori hanno esplorato l’impatto della disinformazione antivaccinista su Facebook, come riportato dal titolo, impatto che secondo alcuni ricercatori italiani doveva essere pressoché zero. I risultati dello studio però sono molto lontani da quanto sostenuto dai ricercatori nostrani.

Sono stati analizzati 13206 url relativi ai vaccini condivisi sulla piattaforma social, per comprendere quanto avessero influito sulle intenzioni di vaccinazione degli utenti americani. La ricerca ha coinvolto quasi 20mila partecipanti e utilizzato i dati di oltre 200 milioni di utenti di Facebook. Grazie a questi dati è stato possibile per i ricercatori stimare l’impatto dei contenuti disinformativi sugli utenti.

La prima cosa che vogliamo mettere in evidenza è che tra i contenuti disinformativi quelli che hanno causato il maggior impatto non sono i contenuti completamente falsi, ovvero quelli subito identificati dai fact-checker di Facebook come potenzialmente pericolosi; quelli, anche grazie alle segnalazioni di contenuto falso apposte da Facebook, hanno avuto un impatto pressoché nullo.

Il problema invece sono stati quei contenuti basati su informazioni vere, ma raccontate in maniera fuorviante. Si tratta in particolar modo di contenuti messi in circolazione dai media mainstream, che soprattutto sui social (ma non solo) hanno cavalcato il clickbait e la disinformazione con articoli che non potevano essere segnalati come contenenti informazioni false, ma che giocavano sulle paure dei lettori per attirarli in massa.

Contenuti che abbiamo visto circolare in abbondanza anche in Italia grazie a testate giornalistiche con con l’etica del mestiere fanno barchette da usare nelle pozzanghere. Testate che, per come hanno cavalcato una certa disinformazione pericolosa per la salute pubblica, andrebbero sanzionate pesantemente, se non proprio chiuse. Qui su BUTAC abbiamo fatto nomi e cognomi di questa gente, con centinaia di articoli dedicati a chi giocava sporco nel silenzio pressoché assoluto dell’Ordine dei Giornalisti. Quante volte abbiamo taggato l’OdG su Twitter, senza mai ricevere un cenno di risposta, quante volte abbiamo segnalato alla squadra di lavoro dell’Italian Digital Media Observatory (IDMO), messa insieme per iniziativa dell’Unione Europea, contenuti pubblicati da testate mainstream. Mai che ci sia stato un cenno di aver ricevuto le nostre segnalazioni. Ci si concentra sui contenuti falsi, quelli che anche mio figlio in seconda media sarebbe in grado di riconoscere, lasciando liberi certi editori di manipolare la gente, magari direttamente in edicola, tanto ci raccontano da anni che il problema è la rete…

Sia chiaro, lo studio in questione parla di vaccini, ma dal nostro punto d’osservazione possiamo assicurarvi che l’andamento è identico su altre questioni scottanti, dai cambiamenti climatici alla cattiva Unione Europea, dal gender all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo.

Eppure, se ci limitiamo a sentire il parere di chi di queste cose dovrebbe essere esperto, ci viene regolarmente risposto che la disinformazione in realtà non fa grandi danni, che non sposta voti, opinioni e comportamenti, che è sempre esistita, che contrastarla col fact-checking non serve. E diciamo pure che sull’ultimo punto potremmo parzialmente essere d’accordo, siamo ben consci che quanto facciamo non cambia la testa della gente. Ma sul resto, ci dispiace dirlo, non concordiamo e continueremo a non concordare. La disinformazione mainstream di danni ne fa tantissimi. Nel silenzio di chi, forse, potrebbe porre qualche limite a questo dilagare.

Sia chiaro, la squadra di IDMO ha condotto analisi che già un anno fa arrivavano a conclusioni simili, ad esempio per chi avesse voglia di ascoltarsi le quasi due ore di videoconferenza sul tema pubblicate sul sito della LUISS:

Proprio qui potete sentire la ricercatrice Irene Pasquetto, tra i fondatori della Harvard Kennedy School Misinformation Review, dire che:

…il nuovo studio conferma anche il ruolo centrale purtroppo dei media tradizionali non solo nel produrre disinformazione delle volte ma soprattutto nel dare voce e amplificare campagne di disinformazione che nascono online…

E ancora:

…mi sento di dire che questa è in realtà la disinformazione più pericolosa e la più diffusa quindi non è tanto il contenuto falso ma il contesto falso che è molto difficile individuare, ed è anche molto difficile fare fact-checking e debunking…

La dottoressa Pasquetto indicava il problema ma anche lei, giustamente, non faceva nomi. E non stava a lei farli, forse dovrebbe pensarci chi presiede il gruppo di lavoro a segnalare quanti giornalisti complici di questa disinformazione abbiamo nel nostro Paese. E invece niente, non un nome, non un marchio di testata giornalistica, nulla di nulla: sia chiaro, magari a porte chiuse quei nomi fra di loro se li dicono, ma questo non aiuta il pubblico generalista, che vede questa gente in TV, sui social, sui giornali, e ovviamente si convince che se dicessero cose così sbagliate qualcuno lo farebbe presente, verrebbero sanzionati per questo, forse le trasmissioni verrebbero chiuse. E invece sull’onda della famosa libertà di espressione l’etica del giornalista è andata a farsi fottere, volevo cercare un modo meno volgare di dirlo, ma è il caso di essere volgari, perché qui non si sta giocando.

La cosa che ci dispiace di più è che di questa deriva del giornalismo nostrano noi parliamo dal 2014, all’epoca la disinformazione di certi quotidiani si basava principalmente sulla politica e sulla scienza, oltre che ovviamente la solita dose di clickbait. Ma anche all’epoca c’erano le lobby che sputavano contro l’UE, quelli che se ne infischiavano delle verifiche e quelli che avevano bisogno di far leva su vecchi spauracchi come il cattivo nucleare. Parliamo di agenzie di stampa nazionali, testate giornalistiche storiche, media televisivi di primaria rilevanza, non testate locali e notizie da quindicesima pagina. Oggi come allora questa disinformazione raggiunge il pubblico generalista, con rarissime smentite, e inesistenti sanzioni a chi la diffonde.

Cosa serve perché ci rendiamo conto che è ora di dire basta?

Proprio oggi, mentre leggete quest’articolo, sarò tra i relatori a un corso per Giornalisti della mia regione, è la prima volta che mi invitano, devo spiegare la pericolosità della cattiva informazione scientifica sui media mainstream. Riporterò anche i dati di questo studio di cui vi ho appena parlato, chissà che a qualcuno non venga finalmente la voglia di cambiare le cose.

maicolengel at butac punto it

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